The Queer is Dead: trent’anni di rock non-solo-eterosessuale
 

di: Fabio De Luca




"Trovo molto improbabile che dei ragazzi si incontrino e decidano di andare in tour assieme a meno che non ci sia dentro ciascuno di loro una sottile profonda attrazione per le persone del loro stesso sesso". Lo dichiara - metà per gioco e metà sul serio - Hank Von Helvete, frontman dei norvegesi Turbonegro di cui avete letto vita morte e miracoli nelle pagine precedenti. Per due secondi verrebbe anche da credergli: se non altro per il gusto di gettare un po’ di scompiglio tra le fila fin troppo ordinate del quieto pensare "per generi". Ecco sistemati cinquant’anni di rock, ecco sistemati Led Zeppelin, Pink Floyd, Mudhoney e (bum!) persino Oasis... Poi, però, è troppo evidente la provocazione, il simpatico gioco al massacro a colpi di psicologia un po’ sempliciotta, quasi da scompartimento ferroviario. Divertente, certo... Così come è divertente sentirlo dichiarare, riguardo allo show dal vivo dei Turbonegro, che "sul palco posso slinguare allo stesso modo un ragazzo come una ragazza, perchè so che entrambe le cose avranno un effetto sul pubblico. È il messaggio erotico del rock’n’roll, e il rock’n’roll è SESSO!". Ma anche messo così non è che ci sia nulla di radicalmente nuovo, niente che non si fosse già visto diecimila altre volte in passato. Poi però arrivano le canzoni. I Got Erection, dall’album Ass Cobra del 1996 (ritornello: "Ogni volta che cammino per strada/Erezione/Erezione"), ma soprattutto la stupenda - e giustamente assurta al ruolo di anthem - Sailor Man, dove a far capolino è una delle icone gay per antonomasia dai tempi di Querelle de Brest. "Oh così carino/oh così forte/Mi racconta storie di terre lontane/per tutta la notte/Rabbrividisco tutto/quando vedo la tua adorabile abbronzatura/E capisco dall’azzurro dei tuoi occhi/che sei un marinaio"...

E’ un curioso cortocircuito, perchè - sommando all’equazione anche l’abbigliamento compuntamente leather sfoggiato dalla band - con i Turbonegro siamo di fronte ad una sorta di auto-parodia "dall’interno" della comunità musicale gay. E qui occorre addentrarsi in un ulteriore distinguo, quello tra sottoculture musicali che partono da un’istanza effettivamente (e "politcamente", come vedremo fra breve) gay, e sottoculture che si limitano a flirtare con l’elemento omosessuale per ragioni estetiche, di esplorazione linguistica o - anche - di marketing. I casi che subito vengono alla mente quando si parla di "ambiguità sessuale" (Bowie, Lou Reed...) più che con l’omosessualità hanno avuto a che fare con la "confusione" e la ridefinizione dei generi e dei ruoli; con un "non sapere esattamente dove collocarsi" che riprendeva - amplificandola ed esagerandola - l’esperienza di ricerca di sé e al tempo stesso di "sperimentazione" di ruoli differenti propria della fase adolescenziale; con l’impossibilità di aderire ad una convenzione, estetica o sociale che fosse (unita ovviamente al fascino perverso - anch’esso molto adolescenziale - del decadentismo). E’ possibile - ma onestamente è più materiale da giornaletti scandalistici che altro - che Bowie e Reed, per non dire di Marc Bolan o dei New York Dolls, ai tempi d’oro abbiano fatto le loro brave esperienze omoerotiche, ma non è quello il punto. Ciò che veniva messo in scena (anche utilizzando la propria vita privata) era qualcosa di più ampio, "generazionale" come minimo. Bowie esplorava da novello Oscar Wilde il limiti del consentito, facendo propria una confusione di generi speculare alla solida mascolinità "working class" (cosa che anche la sottocultura mod già aveva messo in pratica - con la maniacale cura rivolta all’abbigliamento ed all’acconciatura - pur senza entrare direttamente in conflitto con i modelli maschili tradizionali, ma riservando al "corpo" un’attenzione quasi "femminile"). Il Lou Reed di Transformer metteva al contrario in scena un’ambiguità che era più che altro empatia nei confronti dei freaks - froci, transessuali, junkies marchettari da latrina pubblica - che popolavano la wild side di New York, quelli che lui conosceva per averci vissuto fianco a fianco tutta la vita. Poi - certo - lui per primo si truccava, vestiva i blouson noir delle comunità leather e schiaffava sul retrocopertina dello stesso Transformer un bel marinaretto e una bella drag-queen; ma - di nuovo - non è questo il punto.

Fino a quel momento l’"ambiguità sessuale" era ancora solo questione di freaks, di mostri da sbattere in prima pagina. Un uovo marcio da scagliare contro i portoni della buona borghesia del gusto. Si sarebbe dovuta aspettare l’esplosione della disco-music perchè della cultura (e della comunità) gay potesse emergere anche il lato gioioso e creativo, non solo quello torbido. Nata ed allevata nel circuito sotterraneo dei locali gay (esattamente come sarebbe successo dieci anni più tardi per la house-music) la disco fu per due terzi del proprio percorso un fenomeno strettamente legato alla comunità omosessuale (una curiosità: nel romanzo di Nick Cohn da cui è stato tratto il blockbuster La Febbre Del Sabato Sera il personaggio di Tony Manero, quello interpretato al cinema dal superetero John Travolta, era in realtà piuttosto scopertamente bisex!). Drammoni strappalacrime come Don’t Leave Me This Way o I Will Survive, cantati con voce lasciva e sensuale ma anche disperatamente partecipe da straordinarie cantanti di colore, facevano scattare un’istantaneo processo di identificazione nella base gay socialmente marginalizzata (esattamente come le disco-divas: donne e nere dentro una società razzista e maschilista!). Non siamo ancora alla consapevolezza politica del queer-rock, ma è un primo esempio di "orgoglio gay" finalmente libero di potersi manifestare - sia pure spesso in forma di innocua pagliacciata: si pensi all’imbarazzante carnevalata "motociclista + poliziotto + muratore + indiano + soldatino" dei Village People - e di essere riconosciuto come tale.

Un procedimento che, una volta iniziato, si è inevitabilmente dimostrato inarrestabile. Già nella prima metà del decennio successivo l’elemento scopertamente gay della musica pop è un ingradiente talmente comune da non rappresentare più uno choc quasi per nessuno. Dai Frankie Goes To Hollywood (che contrabbandano in cima alle classifiche slang e allusioni da dark-room) all’apparentemente remissivo e folcloristico Boy George passando per la raffinatisima poetica camp-urbana dei Pet Shop Boys, il livello di elaborazione e di consapevolezza è evidentemente mille volte più avanzato che in passato, ed i Village People sembrano lontani due o tre ere geologiche. C’è stata, in mezzo, una prima stagione di lotte e di consapevolezza "politica" sul ruolo della comunità gay, ben rappresentata in campo musicale da Tom Robinson, dimenticato eroe minore della new wave, in prima linea contro gli stereotipi "glam" dell’omosessualità ed il cui maggior successo si intitolava non a caso Glad To Be Gay. La generazione successiva sarà già quella figlia dei pionieristici gender studies (sopratutto statunitensi) o studi "sulla differenza". Una generazione cresciuta nei campus, iper-acculturata, ultra-consapevole ed attentissima agli ighippi del politically correct: poco propensa dunque a sposare gli stereotipi classici, ma abilissima nell’applicare il "discorso della differenza" a generi musicali fino a quel momento lontanissimi dalla sottocultura gay. E’ il caso del queer-core (sotto-directory dell’"emo", che già nella propria accezione contiene la novità - anche per il pubblico etero - di una maggior possibilità di dialogo con la sfera femminile del proprio essere), che non è un genere "nuovo" ma semplicemente indie-punk suonato da band a componente interamente o prevalentamente gay o lesbo. Dalle prime-movers Team Dresh (le cui componenti Jody Bleyle e Donna Dresch daranno vita alle etichette "di genere" Candy Ass e Chainsaw Records) ai loro spin-off Infinite X e The Butchies (e relativa etichetta Mr Lady Records, per cui incideranno fra gli altri Le Tigre e Tami Hart) fino ad altri nomi più o meno noti come Pansy Division, Imperial Teen, Studfinder, Turn-Ons, Eraserrata e The Cock-Ups (una buona guida in lingua italiana al genere è la fanzine Speed Demon).

Certo, mancava ancora all’appello il rock-metal, genere macho (e omofobico) per antonomasia. A parte alcuni isolati casi limite (i trash-metal Pedro, Muriel & Esther) e un paio di derive etero ma legate al "glam" (gli inglesi Darkness, i favoriti di Rumore Toilet Boys il cui frontman Miss Guy farebbe impallidire persino il Renato Zero degli anni ruggenti!) non si registrano flirt tra il metallo e la cultura gay. O almeno: non si sono registrati fino all’ottobre del 1998, quando il cuoiato e borchiato Rob Halford - cantante degli storici Judas Priest - non ha scelto le telecamere di Superrock su Mtv per fare coming out e dichiarare che "ciò che voglio è rimuovore uno stereotipo. Gay e lesbiche sono ovunque, in ogni professione. Io sono semplicemente un gay che di lavoro canta in una band heavy-metal...". Stupiti? Beh, date una scorsa al celebre tomo di John Gill Queer Noises: Male And Female Homosexuality In 20th Century Music, e scoprirete che anche anche alle origini del blues...

(da: Rumore, maggio 2003)