Nine Inch Nails: speranza e vaselina
 

di: Fabio De Luca



"Ero il tipo di ragazzino che buttava via quindici bigliettoni per un disco import degli Psychic Tv solo perchè era figo che nessun’altro ce l’avesse, anche se il disco faceva schifo. Quindi li capisco benissimo."
(Trent Reznor su quella parte di pubblico che lo accusa di essersi "venduto")

"Non riusciva a credere quanto fosse facile/Infilò la pistola in bocca/e bang!"
(Nine Inch Nails, "The Downward Spiral", 1994)



1. STARFUCKERS, INC.
Come fosse l’eroe di qualche perverso videogame della nuova generazione, prima di arrivare al completamento del nuovo album dei Nine Inch Nails The Fragile Trent Reznor ha dovuto attraversare svariate schermate di crescente difficoltà.
Schermata numero uno: la sua depressione. Una forma cronica di depressione che - ironia della sorte - era stata proprio il canovaccio sopra cui cinque anni fa era nato il precedente The Downward Spiral. "Ho scoperto di essere depresso sul serio", dice Reznor nell’intervista uscita il mese scorso su Alternative Press; "Cioè, non è che prima fingessi di esserlo... però c’era sempre stato un aspetto romantico nell’essere depresso. Poi, un giorno, ti accorgi che non c’è più nulla di romantico nel fatto di svegliarti e sentirti davanti un altro giorno di merda. E’ solo... pericoloso!".
Schermata numero due: il blocco dell scrittore: "Sono arrivato ad un punto in cui semplicemente mi odiavo, e credevo che non sarei mai più riuscito a fare musica".
Schermata numero tre: il suo ruolo di rockstar. "E’ come con Kurt Cobain: solo perchè leggono i tuoi testi credono di aver capito chi sei. E si sentono in dovere di dire "ehi, che cazzo ha ’sto qua da essere depresso, è una fottuta rockstar miliardaria!". Ma chi ragiona così in genere è gente che non ha mai avuto degli scopi nella vita oppure non li ha mai raggiunti, perchè diversamente saprebbe che non è il successo a risolverti la vita interiore".
Schermata numero quattro: la morte di una persona a lui paricolarmente cara.
Schermata numero cinque: la pressione da parte dei media.

Tutto è bene quel che finisce bene, però. O comunque tutto è bene quel che in un modo o nell’altro finisce. Alla fine The Fragile è uscito. Un’opera di grandi dimensioni e di non immediata fruibilità ("la mia aspirazione è di creare qualcosa che sia digestibile ma che crei dei problemi durante il processo di assimilazione...") nella quale è coinvolta a vario titolo una imponente galleria di ospiti: Adrian Belew (Talking Heads, King Crimson), Steve Albini, Page Hamilton (Helmet), Dr. Dre, Bill Rieflin (Ministry, Revolting Cocks, Pigface), Mike Garson (David Bowie), Danny Lohner (Skrew, Rob Zombie)... C’è chi ha lavorato sulla totalità delle tracce e chi ha solo aiutato a registrare alcune tracce di batteria. E su tutto, ovviamente, si staglia la figura allampanata di Reznor super-controllore e super-assemblatore che parla di una non meglio identificabile "organic distressed quality" del suo nuovo lavoro...

"Il disco è per la maggior parte costruito su suoni di chitarra", dice Reznor, "anche se non suona necessariamente come un disco chitarristico. Quello che sapevo sin dal principio era che questo era un disco sul collasso dei sistemi, sulle cose che si consumano e che si distruggono durante l’uso. Quindi le canzoni sono di quel tipo che ti sembrano perfette, ma poi c’è qualcosa che ad un certo punto comincia a girare fuori controllo, e tu cerchi di riequalizzarlo e di chiudere in qualche modo la canzone, ma è la canzone stessa a impedirtelo... Per questo ho scelto chitarre ed altri strumenti a corda, perchè sono per loro natura imperfetti". Un disco pensato e costruito al computer che ugualmente, però, colloca al suo centro la chitarra più dei synth. Forse è stata proprio questa peculiare visione del rock ad aver affascinanto (notizia riportata da Spin lo scorso luglio) persino l’apparentemente lontanissimo Axl Rose dei Guns’N’Roses, al punto da fargli precettare stabilmente nella attuale formazione dei Roses Robin Finck (chitarrista dei NIN per due anni tra il ’93 e il ’95) e addirittura chiedere "in prestito" a Reznor il suo ex-collaboratore privilegiato Chris Vrenna per un progetto - apparentemente il nuovo pluri-rimandato album dei Roses - di cui a due anni dall’inizio dei lavori non si sa però ancora quasi nulla...



2. PRETTY HATE MEMORANDUM.
I Nine Inch Nails, all’epoca ristretti praticamente al solo Reznor, escono per la prima volta allo scoperto nel 1989 con un album programmaticamente intitolato Pretty Hate Machine. Non è un successo istantaneo, ma nel giro di un anno e mezzo - senza altro supporto che non fosse il passaparola delle radio e delle riviste specializzate - totalizza oltre mezzo milione di copie vendute. Il pubblico naturale di riferimento, che in un primo momento sembrava provenire per lo più dall’elettronica industriale (giro Wax Trax e dintorni, fino alla old school dei britannici Throbbing Gristle), stava intanto lentamente allargandosi a quella più generica e vasta platea adolescente del rock "alternativo" in procinto di fare il botto con i Nirvana. Lo spostamento diventa un dato di fatto quando, nell’estate del 1991, i Nine Inch Nails vengono invitati alla prima edizione del festival itinerante Lollapalooza rubando platealmente la scena anche agli headliners Jane’s Addiction con un live-act tutto giocato sull’assalto e sull’andare oltre (potenti fari puntati in faccia al pubblico e volumi oltre i limiti dell’umana sopportazione). Ricorda Reznor: "dopo il Lollapalooza c’è stata un sacco di gente che ai concerti veniva e mi diceva "ehi, vi ho visti dal vivo, siete grandi, ma poi sono andato a comprare il vostro disco e - ehi! - cos’è tutta quell’elettronica da froci?!?". Io, a quel punto, non potevo fare altro che mettrmi a ridere".

I tre anni successivi sono per Reznor un pesantissimo periodo di vita on the road alternata a violenti contrasti con la sua casa discografica, la TVT. Colpevole di avergli proibito una collaborazione con l’amico Al Jourgensen dei Ministry e di avanzare continue petulanti pretese di controllo su ogni singola nota prodotta, la TVT verrà "punita" da Reznor con un silenzio discografico a oltranza (interrotto solo dal mini-album Broken - comunque Disco di Platino in USA - e dal suo gemello di versioni remixate Fixed) destinato a risolversi solo dopo l’acquisizione dell’intero pacchetto-Nine Inch Nails da parte della multinazionale Island. Solo così sarà possibile ascoltare, nel 1994, The Downward Spiral, complessa opera a modo suo "concept" che segue le vicende di uno sfuggevole io narrante lungo un percorso di autodistruzione culminato con il suicidio. Registrato (con tutte le polemiche del caso) in quella villa di Beverly Hills nella quale nel 1969 Charles Manson portò a termine la strage della sua "Famiglia", The Downward Spiral è un capolavoro in perfetto equilibrio tra iperviolenza e power-electronics di classico stampo EBM (electronic body-music) e ricerca lirico-acustica concretizzata - ad esempio - nei toccanti intermezzi quasi "pastorali" di March Of The Pigs e Hurt. Un lavoro dal grande impatto emotivo in grado di mostrare, in ogni suo frammento, una concentratissima attenzione tanto al dettaglio quanto alla visione d’insieme ("una sorta di Sgt.Pepper per le nuove generazioni industriali" lo definiva Vittore Baroni in un Rumore di cinque anni fa). Appare evidente lo sforzo di Reznor nell’ampliare il più possibile i confini dei cliché "di genere", la sua idiosincrasia nell’essere incasellato dentro un singolo genere piuttosto che un altro. Due anni dopo l’uscita di The Downward Spiral Reznor dichiara infatti: "E’ esattamente quello che mi ha detto Rick Rubin: "rischi di fare la fine di quello che dipingendo il pavimento si è chiuso nell’angolo dove non c’è la porta", ed è assolutamente vero. Per certi versi The Downward Spiral è il disco più estremo che potessi fare. Ma mi ha anche permesso di accedere ad un nuovo livello di maturità, dal quale evidentemente deriverà qualcosa di nuovo".

"Qualcosa di nuovo" che tarda, però, a manifestarsi. Reznor, complice anche il mettersi in gioco senza troppe maschere delle sue liriche (un titolo come The Fragile...), è uno che ha un rapporto decisamente complesso e controverso con la propria creatività. "Qualunque scusa è buona per non sedermi al tavolino e ricominciare quel doloroso processo di auto-analisi che è lo scrivere", dice; "Potrei curare le musiche per i prossimi 15 film di David Lynch, ed al confronto sarebbe uno scherzo. L’atto della creazione è l’esperienza più gioiosa ed al tempo stesso più dolorosa che un essere umano possa sperimentare. Il fatto che non volessi ritrovarmi da solo con me stesso a scrivere è stata una delle ragioni che ha reso la lavorazione di The Fragile così lunga e faticosa. E più rimandi il momento di vedertela da solo con te stesso, più cresce la tua insicurezza al riguardo...". Gli ultimi cinque anni Reznor li passa infatti trovando un’ottima scusa dietro l’altra per non pubblicare nulla di nuovo a proprio nome. Quasi nulla, in realtà. Perchè se è vero che da The Downward Spiral del 1994 a The Fragile in mezzo c’è stata solo la interlocutoria raccolta di remix Further Down The Spiral, è però anche vero che questi anni sono stati spesi - fra il resto - a suonare dal vivo, comporre le musiche per il videogioco Quake, assemblare le colonne sonore per Natural Born Killers di Oliver Stone e Lost Highway di David Lynch, ritrovarsi candidato ad un Grammy nella categoria "best hard rock performance" (!) per The Perfect Drug (dalla colonna sonora di Lost Highway) e, soprattutto, produrre l’album di esordio per quella icona dell’anti-America fine anni Novanta che è Marylin Manson.



3. L’ANTICRISTO & LA SUPER-STAR
"Mi dicevo: "non appena sarò diventato abbastanza famoso da infiltrarmi nel mercato dei Kmart e degli Idaho, quello che farò sarà pubblicare un disco che dia ai ragazzi qualcosa che non hanno mai sentito prima, qualcosa che sia a modo suo anche pericoloso e del quale i loro genitori siano disgustati e contrariati". Però, allo stesso tempo, come essere umano dentro di me so che c’è un grado di... di responsabilità in tutto ciò. Quando sei in studio, registrare una frase che dice "se ti scazza prendi un coltello e tagliati la gola" può sembrarti divertente, quasi un gioco... ma poi pensi che là fuori magari c’è qualcuno realmente impressionabile, e una cosa è scrivere una frase come quella, e un’altra che qualche idiota ci pensi e lo faccia davvero". Era la fine del 1996 quando Trent Reznor rilasciava questa dichiarazione alla rivista statunitense Raygun. Gli impermeabili bianchi di Littleton erano tre anni di là da venire, così come tutta la bizzarra caccia alle streghe che, la scorsa estate, ha avuto una ricaduta perfino nella pacifica Italia delle balere di provincia, con una pardossale ordinanza di chiusura per il Mamamia di Senigallia reo fra l’altro - si legge sul documento della Questura di Ancona - di "alimentare il fenomeno [di una presunta "fight-dance" N.d.R.] con la programmazione di serate basate su musiche del genere "heawy metal" estremo, che notoriamente vengono interpretate da alcuni giovani come inneggianti al satanismo, alla violenza ed al consumo di stupefacenti, così come si rileva dalle recenti programmazioni (...) che hanno visto il locale in parola ospitare "Antichrist Superstar Rock" di Marylin Manson (...)".

Il rapporto che lega Reznor a Marylin Manson è complesso e interessante da indagare, e per contrasto forse ci rivela qualcosa di più proprio sullo stesso Reznor, che di Manson è il talent-scout oltre che la persona che probabilmente più di chiunque altro lo ha aiutato a definire la propria "poetica" fatta di cliché volutamente sopra le righe, messe in scena volutamente ridicole e rock elettro-gotico retrò e volutamente posticcio. Manson e Reznor: nel primo c’è la violenza esibita, visibile, di uno che si è autonominato antichrist superstar; nell’altro una violenza intesa più all’introspezione di sé stesso che alla provocazione di chi guarda, una violenza opaca e alla fine dei conti persino molto consapevole del proprio portato. "Quando dico "voglio fotterti come un animale"", dice Reznor, "so perfettamente ciò di cui si tratta, cioè di un modo - anche piuttosto adolescenziale - per attirare l’attenzione...". E un’altra differenza tra Manson e Reznor la troviamo proprio nella "tipologia", per così dire, dei loro singoli progetti. Perfetto quello di Manson: tempista, esatto, preciso come un’operazione di marketing ma - proprio per questo - anche estremamente prevedibile nelle sue prossime mosse. Più impreciso quello di Reznor: discontinuo, emotivo, scollegato dal mercato (i cinque anni di black-out...), comprensivo di errori (l’amore per gli strumenti "per loro natura imperfetti" di cui al primo paragrafo). Se fossero una band del passato, Manson sarebbe i Beatles live allo Shea Stadium (più famosi di Gesù Cristo!), mentre Reznor il Brian Wilson di qualche oscura registrazione solista. Se fossero un film, Manson sarebbe Scream 2 (un lavoro consapevole, autoironico e al limite anche "intelligente" sui cliché di genere); Reznor, invece, il white-trash in estatica decomposizione di Natural Born Killers o Lost Highway...



4. "SPERANZA E VASELINA".
Se un’ultima sfida c’è nel percorso obliquo di Reznor verso la popolarità totale, sta proprio nella definitiva presa di distanza dai meccanismi che hanno fatto di Marylin Manson il perfetto pupazzo dell’industria. Non c’è niente di meglio che spaventare i genitori per vendere ai figli: tra qualche anno ne prenderanno il posto, finalmente pacificati dopo il dovuto momento selvaggio dell’adolescenza, nella fabbrichetta (o nell’e-commerce) di famiglia. Rispetto ad un Manson intimamente conservatore la nostra speranza va ad un Trent davvero dark, fragile, tenero e vittima come non mai dei propri cattivi umori. Svincolato dal mainstream sadomaso dei suoi dirimpettai e più vicino, invece, ad una mascolinità incerta, aperta, spaventata dall’esibizione pubblica della propria intimità se non addirittura della propria radicale diversità. Più Edward Mani di Forbice che Il Corvo; più Prince del suono industriale che Jim Morrison del Tremila. Insomma, ancora una volta, giù lungo la spirale...

(da: Rumore, ottobre 1999)