Devendra, Sufjan, Rufus: le radici in un passato immaginario
 

di: Fabio De Luca




Una cosa di cui il rock’n’roll ha sempre avuto disperata necessità sono le radici. Magari per reciderle, magari per farsene beffe e mostrare quanto lontano da esse si è riusciti ad andare. Ma avvertire un radicato senso della storia dietro le proprie spalle e poter declinare un ben fronduto albero genealogico, beh, è una di quelle cose a cui neanche il più minimale tra gli sperimentatori click’n’cut saprebbe rinunciare a cuor leggero (anche se non ve lo confesserà mai, è ovvio). Aggiungeteci i tempi di crisi: tutto quello che da un paio di anni a questa parte si legge una settimana sì e l’altra pure su tutti i giornali a proposito del bisogno di valori forti, di ritorno del senso di comunità, della necessità di trovare una propra collocazione nel flusso della storia. Chi - e siamo in molti - è andato troppo in là per poter ricucire lo strappo con il passato, per poter essere parte di un continuum storico del quale sia possibile ritrovare il bandolo, cerca allora di inventarsene una di sana pianta, di "Storia". Si fa quel che si può, ognuno a suo modo. Molti hanno scelto la soluzione post-moderna di rinunciare in partenza a qualunque pretesa di Storia o radice (sono quelli che man mano che arrivano alla soglia anagrafica dei quarant’anni cadono vittima, con precisone militare, della religione della nostalgia, della new-age delle occasioni perdute, degli amori tormentati). Altri si arrangiano improvvisando radici con quello che hanno sottomano, cercando di riassemblare quei vaghi ricordi al proposito risalenti all’infanzia o a vecchi giornali sfogliati in qualche casa di campagna.

Ecco, sono loro che ci interessano. Quelli che ci provano, a creare da zero delle radici. La scena di cui Devendra Banhart è il personaggio più rappresentativo - chiamiamola "new-folk" in attesa di trovare un nome pi adatto - ha proprio a che fare con questo, con l’inventarsi delle radici antiche. Non è solo e non è semplicemente riportare l’attenzione su una forma minimale di songwriting incentrato su chitarra-e-voce (cosa che non sarebbe una novità neanche in termini di "moda": tutta la faccenda del New Acoustic Movement è in fondo vecchia di appena quattro anni). No, qui il ritorno all’essenzialità di chitarra-e-voce è già la conseguenza del recupero di una tradizione arcaica e di valori tradizionali. Un recupero operato senza alcuna ironia - a differenza della relazione che con il folk aveva il primo Beck, ad esempio, o i geniali Moldy Peaches - connotato da una forte carica morale e, forse, anche moralista e anti-moderna. In un’intervista alla webzine Pitchfork immediatamente successiva all’uscita dell’album Rejoicing in the Hands Devendra dichiarava: "volevo che [l’album] fosse come un cerchio, come un anello rosso, che rappresentasse l’intero spettro dei sentimenti umani, tutti quanti. Questo è ci che sento quando ascolto dischi come Barabajagal di Donovan o qualunque disco di Caetano Veloso. Volevo un album che fosse come camminare lungo la strada mentre alla tua destra c’è un albero di mango e alla sinistra un pesco, e poi un albero di guava, e un’ape ti punge mentre passi accanto al fico e senti una mucca che muggisce, e poi senti freddo, poi caldo, ti arrabbi, sei contento, nuoti in questa strada di alberi da frutto e tutto questo non è una fantasia ma la realtà. E’ come per gli uccelli marini, che non amano la terra ma ci devono andare per trovare quell’albero perfetto nel quale faranno nascere il loro piccoli, anche se loro - in quanto uccelli marini - su quell’albero riescono appena a starci in equilibrio, e i semi dell’albero si attaccheranno alle loro ali, e in alcuni casi appena proveranno a levarsi in volo saranno talmente appiccicosi che proprio non riusciranno a volare e cadranno morti al suolo e si trasformeranno in fertilizzante".

Un’adesione così totale e apocalittica ai valori tradizionali (qui intesi proprio come "naturali", vd. il conclusivo parallelo zoologico) spingerebbe quasi ad una lettura neo-con della poetica di Devendra. Chissà. C’è anche chi in questa verginità rurale puntigliosamente ricostruita ci sente puzza di bruciato, di retorica, di una pretenziosità non poi così lontana da quella dei parchi e ristoranti a tema ("il selvaggio west", "gli eroici anni Trenta", "i favolosi Sessanta" etc.). Prendete Sufjan Stevens: uno che qualche anno fa si è dato il compito di realizzare un album per ciascuno degli stati americani, e che dopo il Michigan di recente è arrivato all’Illinois. Un pazzo geniale, d’estrazione hippie e di stretta osservanza episcopale, alle prese con la sua propria personale birth of a Nation raccontata con toni ora eroici, ora noir. Difficile non essere sopraffatti dall’appassionata sovrabbondanza del suo discorso. O dall’apparentemente fuori tempo massimo pastiche di bluegrass e canzone di protesta di Joanna Newsom, che si definisce "arpista folk e homeless", nel senso che suona l’arpa - ma da un punto di vista non-classico - e non ha una fissa dimora. O dallo stile folk rarefatto fin quasi ad essere penitenziale degli Iron & Wine di Sam Beam. O dalla signorile scrittura d’altri tempi (o forse senza-tempo) di Rufus Wainwright, forse il meno neo-conservatore del gruppo, capace di tenere insieme Bibbia e tematiche omosex come in Gay Messiah. In aealtè ciò in cui Devendra, Sufjan e gli altri sono davvero bravi è proprio nell’occupare quella sottilissima striscia che sta appena sotto la linea di guardia della retorica tradizionalista e di quell’altro temibile chiodo fisso del rock e dei puristi del rock, quello dell’"autenticità". Sono autentici? Sono troppo autentici? Boh. Più che altro Devendra, Sufjan e gli altri sembrano comparse dentro un iptetico episodio di Star Trek in cui un gruppo di hippy viene teletrasportato sull’Enterprise ma - sorpresa! - a contatto con il loro approccio ottimista e fatalista alle cose i veri pesci fuor d’acqua finiscono per essere Kirk, Spock e gli altri "evoluti" dell’equipaggio...

Fra l’altro la scena new-folk è anche la migliore risposta attualmente disponibile a un diffuso bisogno di un underground "sicuro", che cioè non rischi di diventare, in sei mesi, il nuovo mainstream. Difficilmente Devendra Banhart andrà oltre la - pur solida e consistente - nicchia che si è creato in questi ultimi due anni. O forse... Perchè, in effetti, ci sono due suoi pezzi che da qualche tempo danno il guisto tocco folk - polveroso ma non troppo - agli spot belgi (inediti per l’Italia) della birra Fat Tire Beer, e in rete circola la voce - ma per ora è solo una voce - che abbia licenziato un paio di pezzi anche per un futuro spot delle caramelle M&Ms... Una curiosa giravolta ed un’interessante prospettiva di confronto tra neo-tradizionalismo pre-moderno e la solita ingombrante modernità del mercato unico. E a questo punto: ok il fardello del rappresentare la ricucitura con lo strappo della tradizione, ok dipingere l’immagine di un’America senza tempo (e forse anche senza spazio), ma occhio. Perch le True Stories della suburbia di David Byrne sono proprio lì dietro l’angolo.

(da: Hot, settembre 2005)