2004: Dance is (not) Dead (?)
 

di: Fabio De Luca




Locali che chiudono, giornali che smettono di uscire, siti internet oscurati, dischi che prendono polvere nei magazzini, distributori ed etichette che abbassano la serranda... Se nei mesi passati avete seguito con l’attenzione che merita la rubrica Bpm in fondo a questo giornale, non sarà sfuggita nemmeno a voi la lenta inersorabile litania di pessimi segnali riguardo lo stato di salute del mondo della - chiamiamola così per semplicità - "dance". L’ultima croce riguarda Jockey Slut, quella che dopo la chiusura la scorsa estate del mai troppo rimpianto Muzik rimaneva l’unica testata dance specialistica con un taglio ed un’ottica realmente spregiudicate e di ricerca. Non ha esattamente chiuso, Jockey Slut, ma l’editoriale che lo pubblica ne ha portato la frequenza da mensile a trimestrale, e se qualcosa non cambierà con il prossimo numero siamo di fronte anche ad un riposizionamente piuttosto marcato in direzione indie-rock (Franz Ferdinand e dintorni: un segno dei tempi, ma ne parleremo tra poco). Poi, certo, uno può dire che c’è dance e dance, ed a ben guardare i club che hanno chiuso i battenti in Inghilterra negli ultimi dodici mesi erano (quasi) tutti appartenenti al circuito della cosiddetta "trance" - il tardo "prog-rock" della house esploso sul finire degli anni Novanta per un pubblico esclusivamente adolescente, i famosi Gatecrasher-kids, la baby-tribù riconoscibile per i ciucci appesi al collo, le barrette fosforescenti in mano e le pupille dilatate. I locali che al contrario hanno gestito con intelligenza la transizione dal boom di fine anni Novanta alla crisi post-9/11 - diversificando l’offerta e conservando un occhio di riguardo per tutti quei fenomeni di nicchia che però una loro rilevanza ce l’hanno - la crisi l’hanno sentita meno di altri. I nomi già li sapete: Fabric, The End, Bar Rumba... (solo per rimanere a Londra). Basta tutto ciò per dire che la dance è in crisi? Ovviamente no. A guardare le cose da un’ottica puramente commerciale la dance non è più in crisi di altri settori del terziario. E’ in crisi perchè c’è la crisi, diffusa a tutti i livelli (meno soldi per tutti da spendere per il voluttuario). Una crisi che ci vorrebbe un libro intero e un team di economisti per spiegarla, una crisi dalle origini in parte note a tutti e in parte non sempre chiare a chi non mastica i temi della finanza. Quello che interessa a noi però è un’altra cosa: provare a verificare se una certa serpeggiante sensazione che già da un po’ di tempo ci gira in testa sia vera oppure no. Cioè se ad essere in crisi sia l’idea stessa della "dance" come forza propulsiva del mercato, del consumo e (soprattutto) del linguaggio.

Un breve passo indietro. In un allarmistico articolo uscito lo scorso agosto sul quotidiano inglese The Guardian, interrogato circa un’ipotetica "crisi della dance" Tom Withwell - per lungo tempo alla guida del mensile specializzato Mixmag - dichiarava che "la dance non è morta, è solo addormentata". E poi aggiungeva un’interessante personale interpretazione sul perchè di questa catalessi: "La maggior parte dei dj, quelli dei superclub e quelli su BBC Radio1, è gente sopra i quarant’anni. Si è creato un gap generazionale tra loro e il loro pubblico: i ragazzi non si riconoscono più in loro". Il che ovviamente spiega solo in parte le ragioni di una disaffezione, ma punta il dito su quello che è comunque un fenomeno del quale non si fatica ad accorgersi: la totale mancanza di turnover tra i protagonisti della scena. Prendiamo proprio Mixmag: il numero in edicola al momento in cui noi andiamo in stampa sfoggia in copertina la solita gnocca poco vestita (che rimanda all’imperdibile cover-story: "Vuoi infilare il tuo 12" nella mia valigetta?", le groupies del mondo dei dj raccontano...), e i nomi di cui si parla all’interno sono Fatboy Slim, Carl Cox, Moby, Ferry Corsten, Lisa Lashes, Sasha, Paul Van Dyk, Chemical Brothers. Come dire: potrebbe essere un numero di cinque anni fa, il che non è male come indicazione, considerando ad esempio che Fatboy Slim non pubblica un disco da quasi quattro anni. Unica eccezione è The Streets, che nel calderone della "dance" ci rientra comunque per meriti "sociali" più che stilistici. Per il resto non c’è da stare allegri, se il magazine più diffuso nella comunità dance non riesce a trovare un singolo nome nuovo sul quale puntare. D’altro canto i conti sono presto fatti. Da quant’è che in ambito dance non esce un album in grado di catalizzare attorno a sé un’attenzione non semplicemente settoriale? di rappresentare un mondo un po’ esteso rispetto alla propria nicchia di appartenenza? di convertire nuovi adepti alla causa? Un album della portata di We’ve Come a Long Way, Baby di Fatboy Slim insomma, di Dig Your Own Hole dei Chemical Brothers, di Rooty dei Basement Jaxx. Un calcolo approssimativo: l’ultimo dovrebbe essere stato - nell’estate del 2002 - A Hundred Days Off degli Underworld, del quale peraltro difficilmente si può dire che abbia rappresentato un fenomeno di proporzioni rilevanti (poco prima e poco più rilevante c’era stato Kitten & Thee Glitz di Felix Da Housecat). Tutto ciò che è uscito da allora sono stati dischi spesso avvincenti, talvolta geniali, ma anche dischi molto "piccoli", molto sussurrati, destinati ad un pubblico già in possesso dei mezzi per decodificarli nella loro avanzata complessità. Night Works di Layo & Bushwacka!, Metro Area dei newyorkesi Metro Area, il sottovalutato Attention dei Gus Gus, l’eccellente Ego War degli Audio Bullys, N.Y. Muscle di Dj Hell. Quelli che potevano o dovevano dare la zampata che spingesse avanti l’intera scena - invece - hanno latitato e continuano a latitare, rimandando di mese in mese l’uscita dei loro dischi (Fatboy Slim, Prodigy, P Diddy con il famoso album "electro-tech"...) oppure tornando a rintanarsi dentro a micro-culture sempre più puntiformi pubblicando lavori che a stento riescono a dialogare col mondo al di fuori della propria nicchia di appartenenza (i Basement Jaxx dell’ultimo, circonvolutissimo Kish Kash).

Nel frattempo è successo qualcos’altro di cui è impossibile non tenere conto. Il rock - inteso nella sua incarnazione più garage, non cioè quella vetero-crossover e nu-metal - è tornato ad essere rilevante. Di più: è tornato ad essere il suono che meglio rappresenta i tempi che corrono. C’entrano l’attitudine disincantata (contrapposta al glamour di cui si nutre il mondo del clubbing), la voglia di radici, il percepirlo come un terreno "vergine" e meno compromesso rispetto al business milionario che ha governato la dance negli ultimi anni. Sono corsi e ricorsi, non ci sarebbe da stupirsi nè da gridare al fenomeno. E’ però interessante come tutto ciò non abbia solo sottolineato la battuta di arresto nella crescita di interesse verso la dance, ma proprio una migrazione di senso opposto. In altre parole: se attorno al 1996/8 dischi come Dig Your Own Hole e We’ve Come a Long Way, Baby riuscirono a convertire molto popolo "del rock" ad un primo timido contatto con la dance - primo timido contatto che per alcuni si è poi trasformato in un duraturo e soddisfacente flirt - oggi paradossalmente ma neanche tanto gruppi come Franz Ferdinand (che hanno nel loro DNA un tiro funky degno degli anni d’oro della disco) e White Stripes stanno traghettando larghe fasce di frequentatori di club verso il mondo del rock. Nel caso dei White Stripes poi - che sono veramente sotto tutti gli aspetti i Daft Punk o i Kraftwerk del 2000: stesso rigore estetico, identica capacità di creare melodie memorabili dal minimalismo dei mezzi - la cosa è addirittura eclatante. Se c’è una cosa ed una sola che nei mesi scorsi ha unito qualunque dj di questo mondo, da Carl Cox a Tommy del Grande Fratello, è stato il giro di basso di Seven Nation Army. Si dice che persino il tamburone vivente Erik Morillo, la notte di Capodanno al Muretto di Jesolo, abbia suonato i White Stripes verso la fine del set (e la versione originale: nemmeno uno dei diecimila remix pirata che sono circolati in Rete e su white-label).

Va sicuramente detto che l’avvicendamento (o il ri-avvicendamento) tra dance e rock si sta rivelando tutt’altro che privo di interessanti punti di contiguità. In altre parole: esattamente come nel 1988 la dance fece definitvamente il botto appropriandosi consciamente o inconsciamente di modi e attitudini del rock - e del rock più Sixties e garage in particolare (ricorderete la breve incendiaria stagione del "big-beat") - oggi nell’attitudine di tutto il migliore garage-punk in circolazione non è difficile leggere in trasparenza un’eredità (spesso nemmeno percepita come tale) degli ultimi cinque anni di musica elettronica. E’, ovviamente, qualcosa di molto sfumato, qualcosa che ha a che fare con l’attitudine e l’approccio più che strettamente con i suoni. Ad esempio ha a che fare con l’accettazione ormai a tutti i livelli del "dj" come figura rispettabile (se può valere qualcosa, nell’album in uscita a fine estate i Rem hanno inserito una canzone intitolata I’m gonna dj...). Ha a che fare con con il cogliere retrospettivamente l’elemento di collisione tra "disco" e punk che era alla base di tutto il punk-funk newyorkese dei primi anni Ottanta oggi così alla moda. Ha a che fare - e qui parliamo di pubblico - con un atteggiamento meno settario che permette di andare nella stessa sera prima a sentire un concerto punk e poi ad un rave senza che la cosa sembri in contraddizione. Se qualcosa l’elettronica ha insegnato al rock è proprio un certo senso di "transitorietà", di assenza di concetti assoluti (l’infinità dei remix contrapposta all’unicità della canzone...): il fatto che si possa apprezzare una canzone dei Von Bondies circoscrivendo quell’esperienza al qui ed ora di (ad esempio) un concerto, esattamente come fosse una white-label di quelle suonate dal dj, senza chiedere che dietro ci sia per forza una storia, o una band con una storia, o una qualsiasi identità solida. Pura "canzone", e puro piacere che ti comunica in quel momento.

Che è poi la stessa filososfia d’approccio del gran baraccone futuristico di I-Tunes (scarico per 99 centesimi la canzone che mi piace, chissenefrega dell’album). Guarda caso un’articolo uscito lo scorso aprile sull’Independent individuava proprio nella tecnologia dell’i-Pod un grande veicolo di democrazia ed al tempo stesso l’ultima definitiva spallata alla già (secondo loro) traballante istituzione pubblica del dj. Non è così, amici dell’Independent. La dance per il momento potrà anche tornare ad essere un fenomeno "underground" (cosa che non potrà che farle bene), ma l’onda lunga della sua influenza vive e lotta ancora insieme a noi. Indietro non si torna.

(da: Rumore, giugno 2004)