Courtney Love: la fidanzata d’America
 

di: Fabio De Luca




Un lunedì di gennaio scopri che alla grande lotteria della vita è uscito il tuo numero: intervisterai Courtney Love. Ehi, che bello: la controversa primadonna del rock! Ma non era ai domiciliari? Ma non era in clinica a disintossicarsi? Boh, sembra di no. Comunque ha un disco in uscita ai primi di febbraio, dunque la promozione dovrà pur farla. Passano un paio d’ore, e ti viene comunicato che con ogni probabilità l’intervista dovrai andare a farla a Londra, dove è previsto un ciclo di conferenze stampa per la fine della settimana. Di bene in meglio: weekend spesato a Londra e intervista con Courtney Love. la vita alle volte è meravigliosa. Martedì una buona notizia ed una cattiva: l’intervista è confermata, ma sarà una telefonica perchè Courtney non viene più in Europa, con conseguente cancellazione di tutto lo schedule promozionale londinese. Mercoledì si comincia a ragionare: il piano di interviste telefoniche per l’Europa è stato approvato e l’Italia passerà venerdì, probabilmente in serata. Nell’euforia della notizia si decide di comprare un nuovo cavetto per registrare dal telefono, uno che si collega direttamente alla presa telefonica e che costa la bellezza di trenta Euro (ma li vale tutti: dovreste sentire la pulizia del segnale). Giovedì finalmente una certezza: domani notte Rumore avrà la sua intervista esclusiva con Courtney. L’ora è ancora variabile, ma l’intervista si farà. Venerdì mattina la conferma: l’intervista c’è, "lei" sarà disponibile per circa venticinque minuti, al telefono dagli uffici Virgin di Los Angeles. Chiameranno loro; alla mezzanotte e trenta ora italiana. Oggesù. La giornata passa in trepida attesa e nell’elaborare versioni il più diplomatiche possibile di domande su argomenti che di diplomatico hanno ben poco. Viene immediatamente scartata "Si dice in giro che sei stata tu ad uccidere Kurt Cobain: è vero?". (Mica per altro: c’è il rischio che la sottile ironia tutta postmoderna contenuta in una domanda come questa si perda lungo il tragitto via cavo Milano-Los Angeles). La strategia è di cominciare con questioni il più generiche possibile sul disco nuovo ("come sono stati coinvolti Wayne Kramer degli MC5, Kim Deal dei Pixies e Scott McCloud dei Girls Vs. Boys?", "rispetto a Celebrity Skin i tempi e il mercato sembrano decisamente più maturi per un disco rock, vero?", "perchè la scelta di registrarlo in Francia?") per poi passare ad una garbatissima provocazione sul suo ruolo di leader un po’ despota ("c’è realmente un cambiamento nel pensare in termini di disco "solista", dal momento che già le Hole erano comunque una tua personale creatura?") e quindi tentare l’affondo sul personale ("tua figlia è ormai quasi adolescente: cosa ti preoccupa maggiormente nei tuoi rapporti con lei negli anni a venire?"). E’ ovvio a tutti - ed a noi per primi - che le probabilità di arrivare vivi fino a quest’ultima domanda sono infinitesimali. Del resto questa ormai non è più un’intervista: è una specie di rebus, un cruciverbone il cui premio in palio è riuscire a far dire qualcosa di sensato - via telefono - alla Pazza.

Arriva la mezzanotte: a Los Angeles sarà primo pomeriggio,la gente starà rinentrando negli uffici dopo la pausa pranzo. Tra loro anche la bionda Courtney: sempre che nel frattempo non abbia fatto a pugni con qualche inserviente di Starbucks, non l’abbiano trovata in possesso di una quantità di ansiolitici sufficienti a sedare un’intera nazione o non abbia deciso di entrare in casa di qualche suo conoscente rompendo la finestra del salotto. Bonnng: mezzanotte e mezza. Il telefono tace. A mezzanotte e quaranta si decide di fare quella cosa umiliante che decenni di iconografia romantica disfunzionale hanno ampiamente tramandato: ci si chiama da un’altro telefono per vedere se per caso la linea fosse interrotta. No, la linea c’è. Che si fa? Si aspetta, è ovvio. Si mette il caffé sul fuoco. Di accendere la tv per ingannare il tempo non se ne parla (metti che la corrente statica dello schermo interferisca con i cavi del telefono: oh, non si sa mai). Alla fine si decide di riascoltare America’s Sweetheart, ma a volume basso, metti che poi non sentiamo il telefono. E il telefono infatti squilla. All’una e quaranta di notte: che nel silenzio e nella tensione dell’attesa finisce per non essere molto diverso da come uno si immagina le trombe del giudizio. "Vado io, vado io, tu controlla il registratore. Ehmmm.... hello?".

(professionale voce telefonica da Los Angeles) "Helloow? Ruumorew?"
(agitata voce telefonica a Milano) "Yes?"

Ma invece non è yes, è no. Una voce molto americana e molto compita dice che - purtroppo, sfortunatamente, imperscrutabilmente - l’intervista con Courtney Love non potrà avere luogo all’ora stabilita (che era comunque settanta minuti fa, ma questi son dettagli, si capisce). "Yes but, is she allright? any new problem? Has she been arrested again? Rehab?". "Well", ci dicono dall’altro capo dell’Oceano, "nulla di serio, è solo che... di questi tempi pare un po’ difficile organizzare qualcosa con lei". Beh, verrebbe da rispondergli, non dite che non ve l’avevamo detto. Lunedì mattina, nella filiale italiana della multinazionale discografica stessi volti costernati ed identici toni laconici. Sull’ipotesi di ri-schedulare l’intervista la risposta sembra quella del centralino dei taxi all’ora di punta - "ci spiace, stiamo facendo il possibile" - mentre il body language dice come al solito molto di più, visto che il gesto ricorrente è l’allargamente delle braccia quasi a ribadire che "siamo nelle mani di dio". La terribile verità è però un’altra, e qualcuno prima o poi dovrà dirgliela: non sono nelle mani di Dio, sono nelle mani di una pazza.

Una pazza che gli è costata pure un sacco di soldi. Un paio di milioni di dollari - la cifra esatta è top secret: qualcuno dice addirittura dieci - in cambio dell’impegno a consegnare tre album in cinque anni. Il primo, America’s Sweetheart, atterrerà nei negozi di dischi il 9 febbraio dopo essere stato cancellato e reinserito nei calendari delle uscite almeno una mezza dozzina di volte. Un album - detto molto cinicamente - al quale nessuna strategia di marketing avrebbe potuto assicurare la copertura stampa che gli hanno garantito gli ultimi dodici mesi di vita di Courtney Love, in base all’aurea regola per cui "tutto ciò che non uccide, fa vendere più dischi". Dodici mesi di tabloid con la bava alla bocca, di arresti per droga, di ricoveri, processi, dibattimenti sull’affidamento della figlia. Ma soprattutto di brutte storie di droga, un fiume di droga. Antidepressivi, soprattutto. Roba tipo Xanax, OxyContin. Il genere di sostanze che - come dichiarerà in una intervista a Us Weekly - "ditemi una persona che non ne faccia uso in America, oggi". In tutto ciò America’s Sweetheart porta con sé "un po’ di rinascita, un po’ di morte, e un po’ di speranza. E molto Dio, ed anche molto sesso", secondo quanto dichiarato mesi fa dalla stessa Courtney. Di certo è un disco con le radici ben piantate nel passato, pur senza essere necessariamente retró. Un disco costato uno sproposito in termini di soldi e mezzi di produzione, ma del quale Courtney dice: "ci ho lavorato tanto, per quasi due anni. Ma tutto considerato sarebbe bastato molto meno: alla fine quando ho una penna, una chitarra e me stessa, ho tutto quello che mi serve per fare un gran disco". E ci vuole evidentemente dell’ironia per lanciarsi in affermazioni come questa. Così come ci vogliono ironia e faccia tosta non comune per potersene impunemente uscire - dopo tutto quel che le è successo negli ultimi mesi - con una canzone il cui testo nel crescendo finale dice "tutto il mio amore, tutti i miei soldi, non sono nulla in confronto alle... droghe!" (con molta nonchalance, sopra un’impeccabile base che mescola vecchi Rolling Stones e revivalismi ’70 alla Mudhoney).

Del resto: le ragioni per rifugiarsi nell’oblio sintetico non mancano. Courtney è sotto pressione: la casa discografica le ha accordato un anticipo multi-milionario e adesso non intende certo accontentarsi di un semplice disco rock, vuole un disco che sia una "hit" planetaria. Di questo Courtney è perfettamente consapevole. La si immagina insonne, notte dopo notte, nel suo studio di registrazione. Come fare per reggere la tensione e lo stress? È ovvio: "aiutandosi". Segnali che il lavoro di studio abbia avuto momenti difficili se ne possono leggere diversi. I numerosi rinvii della data d’uscita, innanzitutto. E poi il balletto di produttori che si sono alternati al banco di regia: Josh Abraham, Jim Barber, Matt Serletic... Tutto lascia intuire che il materiale grezzo portato da Courtney alla casa discografica non fosse - al primo ascolto - esattamente "malleabile" come ci si aspettava. In effetti non è difficile immaginare cosa possa essere successo: lei che arriva con delle caotiche punk-songs che fanno venire giù i muri, gli executives terrorizzati che cercano di arginare il tifone-Love affiancandole persone capaci di prendere l’elettricità fuori controllo dei suoi demo e convogliarla dentro la cornice di un album "rock" in grado di dialogare con il mercato. Per questo c’è il trio di produttori, oltre a un team di co-autori che comprende Bernie Taupin - il leggendario paroliere di Elton John - e Linda Perry, ex componente delle 4 Non Blondes e da diversi anni autrice di successi per popstar come Christina Aguilera e Pink. Quanto di più lontano si riesca a immaginare dallo stile e dalle intenzioni di una Courtney Love. Ops, non finirà mica che dopo Hollywood e dopo le sfilate adesso la Pazza si metta a flirtare pure con il superficiale mondo del pop? Forse no: "Non mi dispiace l’idea di scrivere per qualche altro artista", dice, "e Linda mi ha detto che Britney Spears sta cercando di spostarsi un po’ sul rock... ma no, non credo che lo farò. Non vorrei sembrare snob, ma perchè dovrei buttare via un mio testo per qualcuno a cui non frega nulla di quello che dico? Ricordo una puntata di Top Of The Pops in cui ero ospite: c’erano anche le All Saints che facevano la loro cover di Under The Bridge dei Red Hot Chili Peppers, e la interpretavano come fosse una canzone d’amore, non si erano nemmeno lontanamente chieste cosa c’era dietro quelle parole. E’ questo che mi spaventa del pop".

Il titolo dell’album ha invece una storia molto terra terra. "C’era un articolo, in una di queste riviste che si occupano di marketing e pubblicità" racconta Courtney. "dove si faceva il conto di quante volte sono stata sulle copertine dei giornali negli ultimi anni, e, insomma, si concludeva che io sarei la vera "America’s sweetheart" nel senso di testimonial ideale per veicolare determinati prodotti... E lo dicevano senza la minima ironia, seriamente! Però l’idea di essere una sorta di "fidanzata d’America" la trovo attraente". Almeno finchè non entra in conflitto con l’altra Courtney Love, quella capace di tenere testa a qualunque presidente di casa discografica ed anche agli ex-compagni del defunto marito per gli strascichi dell’eredità dei Nirvana. Quella Courtney si è un po’ ricreduta riguardo al fatto che "Non dovremo mai più lavorare con le multinazionali perchè l’economia digitale sta creando nuovi modi di veicolare e distribuire la musica", come aveva entusiasticamente dichiarato ad una convention sul digitale a Hollywood nel 2000. Ma l’intervista molto business-oriented rilasciata nell’estate 2003 a Billboard riguardo ai suoi rapporti con la discografia la dice lunga sulla sua lucidità di pensiero: "Non sono contro le major per partito preso. Sono contro due cose soltanto: la contabilità che prevale sulle valutazioni artistiche, e la crescita di quella che io chiamo la "cultura degli executives", ossia quel fenomeno per il quale dentro una casa discografica i manager sono più importanti degli artisti e l’ego di un presidente è più importante di dozzine di posti di lavoro. La casa discografica con cui ho firmato ha una tradizione di cultura sufficientemente solida perchè non capiti di sentire i nomi dei componenti il consiglio di amministrazione pronunciati più spesso di quelli degli artisti". Alla nuova casa discografica, oltre al già menzionato contratto multimilionario, Courtney ha strappato un accordo che stabilisce la comproprietà dei master (cioè delle registrazioni: un antico pallino di Courtney dopo aver visto com’è finita con i Nirvana) e l’impegno a lasciarle realizzare nel corso del 2004 un disco registrato dal vivo in un carcere femminile - probabilmente in Irlanda - sul modello dei leggendari live di Johnny Cash alla Folsom Prison ed a San Quintino. A riprova, se ancora ce ne fosse bisogno, che su di lei si possono continuare a scrivere storie diametralmente opposte. La Courtney manipolatrice contro la Courtney vittima degli eventi, la Courtney paladina del rock alternativo contro la Courtney amica degli stilisti. In mezzo c’è lei - quella vera, quella che forse non conosciamo - che miracolosamente riesce sempre a far quadrare il cerchio, a tenere i piedi in due scarpe. Possibilmente firmate Gucci.

(una versione editata di questo articolo è uscita su: Rumore, febbraio 2004)