Coldplay: livin’ la vida glamour
 

di: Fabio De Luca




Jingle bells, jingle bells, Jingle all the way. L’album dal vivo dei Coldplay con allegato Dvd arriva, guarda caso, in tempo per le festività natalizie. Tralasciamo pure la straordinaria coincidenza, e concentriamoci invece sulla vera stranezza: i Coldplay stanno per pubblicare un album dal vivo. In altri tempi l’"album dal vivo" era quello della santificazione, quello che arrivava allo zenith di una carriera, quello che ti consegnava per l’eternità alla Storia del Pop: quello nel quale un banditore in apertura annunciava con voce stentorea "ladies and gentlemen..." e poi il nome del gruppo. Quindi, dobbiamo concludere, è già tempo di santificare i Coldplay. Dopo soli due album? Siamo sicuri? In realtà il problema è un altro, e precisamente che da queste parti - intendendo: da un punto di osservazione con i piedi nella cultura "indie" ma con un occhio di riguardo e pure qualcosa in più anche per i fenomeni di costume - quello dei Coldplay è sempre stato un nome capace di far scoccare scintille ma quasi mai divampare incendi. Bravi, per carità, da cinque stellette sempre e comunque: ma al tempo stesso come un po’ sfuggenti, mai completamente a fuoco. Detto in maniera più chiara: non ce li siamo filati a sufficienza, tranne che forse agli inizi-inizi. Salvo poi stupirci (ma stupirci per davvero, con occhi spalancati e boccuccia a punto interrogativo) ascoltando i racconti di chi c’era, al concerto del Filaforum di Assago lo scorso novembre, su quanto in quell’occasione i Coldplay siano stati magici e quanto trascinante e catartico il finale. Snobberia? Forse. Agli inizi della loro storia, quando i Coldplay potevano sembrare solo un timido tentativo post-britpop di seconda generazione (e con tutta la più buona volontà era difficile immaginarli alle prese con platee più grandi di quella di un teatro comunale), lo scopritore degli Oasis ed ex-presidente dell’etichetta Creation Alan McGee li liquidò pubblicamente come un gruppo di "piscialetto". Anche senza cadere nella retorica da bulletto da pub, quella era la stessa sensazione che abbiamo avuto in molti, all’epoca. Nel senso che già allora si percepiva, ed anche chiaramente, quanto i Coldplay fossero "altro" rispetto alla tradizione indie-rock inglese, quanto più avessero in comune con la grandeur (soprattutto emotiva) degli U2 che non con la poesia grezza e d’ogni giorno degli Smiths o per altri versi degli Oasis. In loro vibrava qualcosa di cosmico, ed è in quello che avremmo dovuto intravedere o almeno intuire le star in via di definizione. Abbiamo visto solo la possibile deriva bubblegum power-pop del loro suono, e il rischio di ritrovarci in capo a un paio d’anni con dei "nuovi Stereophonic" a cui dover garantire una pensione. Ci siamo, evidentemente, sbagliati.

Poi, nello spazio di un paio d’anni i Coldplay sono diventati qualcosa di mostruosamente grande. Senza quasi farsene accorgere, perseguendo una politica dei piccoli passi che del resto era l’unica praticabile per una band che da un lato si è trovata volente o nolente a dover rivestire i panni di "prossima grande cosa" raccogliendo l’eredità di un movimento britpop ormai rincoglionito, mentre dall’altro rischiava ad ogni passo di vedersi sventolato davanti alla faccia il temibile spauracchio di "nuovi U2". Così, senza tanto chiasso e (all’inizio) senza troppo spreco di uomini e mezzi, con la sola forza di canzoni come Yellow e di una capacità di stare in scena che cresceva concerto dopo concerto, i Coldplay hanno convinto uno per uno scettici e dubbiosi a passare dalla loro parte. Che qualcosa stava diventando "grande" oltre le più ottimistiche aspettative lo si è annusato nell’aria poco più di un anno fa, nell’estate 2002, all’indomani dell’uscita del secondo album A Rush Of Blood to The Head. Le prime avvisaglie da un articolo dell’NME scritto all’indomani di un filotto di trionfali date live in terra d’America. E poi, certo, le notizie dal fronte sentimentale, la breve liaison tra il cantante Chris Martin e Natalie Imbruglia, seguita da una più duratura e sostanziosa relazione con l’attrice Gwyneth Paltrow (per lui la bionda testimonial del Martini avrebbe scordato il coronato Felipe di Spagna), vicenda quest’ultima che ha significato l’upgrade definitivo dei Coldplay da argomento per appassionati di musica a materiale scottante buono per i rotocalchi di Rupert Murdoch. E ad un certo punto sono arrivate pure le pubblicità a pagina intera comprate dalla casa discografica sui quotidiani inglesi - il vero "lancio" strategico della band presso il pubblico extra-settore - ed è ovvio che un impegno di capitali di quella portata in termini di marketing vuole dire soltanto una cosa: "priorità assoluta", cioè soldi, quei soldi che in tempi di crisi li investi solo su progetti sicuri, che sai ti porteranno in cassa più di quanto stai spendendo.
Evidentemente, ai piani alti degli uffici marketing la percezione che i Coldplay sarebbero diventati quello che poi sono diventati era ben chiara. Viene in mente che - contestualmente a "piscialetto" - nella medesima occasione di qualche anno fa il prode McGee li apostrofò anche (e delle due è difficile dire quale sia l’offesa peggiore) come autori di "rock carrierista". Affascinante dilemma: i Colplay sono arrivati dove sono arrivati perchè sostenuti da una massiccia campagna di marketing (senza la quale sarebbero ancora a cantare le loro - ugualmente bellissime - canzoni al pubblico dei pub)? Ed è questo che nella visione di McGee significa essere carrieristi (neanche gli Oasis fossero stati dei dopolavoristi) del rock? Certo è che in termini di presenza sul mercato i Coldplay sono stati e sono tuttora una bestia strana che sta esattamente a metà strada tra i Radiohead e Kylie Minogue. Nel senso che hanno un coté credibile ed artisticamente presentabile al pari dei Radiohead (sebbene non così credibile come quello dei Radiohead...) e al tempo stesso fruiscono di un successo di massa e di un’esposizione mediatica paragonabili a quella di Kylie (pur non essendo tecnicamente un progetto "pop"). Ritorna il paragone con gli U2, un tormentone più che un paragone. Una sorta di simbolico passaggio di consegne tra padri e figli ci sarebbe pure stato, nell’agosto 2001, durante un concerto al Castello di Slane a Dublino, concerto nel quale gli U2 erano le star ed i Coldplay il gruppo di supporto. Bono nel bel mezzo di un pezzo ha accennato un paio di accordi di Yellow, il pubblico è prevedibilmente esploso, e chi da sempre vedeva muoversi in Yellow le stesse eliche di Dna che animano Where The Streets Have No Name può finalmente andare a casa felice.

Al concerto del Filaforum di cui sopra, novembre 2002, i Colplay arrivavano da un successo di centomila copie di A Rush Of Blood To The Head vendute soltanto nel nostro paese. Questo giusto per dare un po’ di cifre. Durante un ulteriore rincalzino di tour americano dello scorso fine maggio, A Rush Of Blood To The Head era appena rientrato (dopo 39 settimane di presenza sul mercato) nella top 20 dei dischi più venduti negli Usa. Si calcola che, nel complesso, l’album abbia fino ad oggi totalizzato su scala mondiale qualcosa come sette milioni di copie vendute. Tra fine maggio ed i primi di giugno scorso i Coldplay hanno tenuto quelli che con ogni probabilità sono stati i concerti più importanti della loro vita, di certo quelli che li hanno definitivamente consegnati al pantheon del rock statunitense: prima la Hollywood Bowl (due concerti da 17.383 spettatori ciascuno: dati Nme), dove anche i Beatles a loro tempo fecero il tutto esaurito, poi il Red Rock Anphitheatre a Denver, dove nei tardi anni Ottanta avvenne la consacrazione americana degli U2, quindi il Madison Square Garden a New York. Per le due date all’Hollywood Bowl i prezzi del bagarinaggio sono arrivati fino ad 800 Dollari (dati sempre Nme), e riguardo all’esperienza di suonare in quel luogo il commento di Chris Martin pare sia stato: "molto, molto springsteeniano!". Ripensandoci, l’idea di un album dal vivo dei Coldplay potrebbe tutto sommato avere un senso (anche se il live natalizio in uscita questi giorni è stato registrato all’Horden Pavillon di Sidney un mese dopo i concerti statunitensi di giugno). Il live sembra essere diventato, nell’ultimo anno, la loro dimensione naturale. Una recensione dello scorso aprile sul quotidiano inglese The Guardian parlava del loro concerto alla Manchester Arena come di "una lezione universitaria sul modo in cui andrebbe suonato il rock negli stadi", e di Politik come di "un’apertura degna degli Stooges, dopo la quale il set scorre perfettamente equilibrato tra rock e le tipiche ballate che sono marchio di fabbrica di Chris Martin", al proposito del quale The Guardian concludeva che "come Prince e David Bowie, [Chris Martin] si trova in una di quelle fasi creative durante le quali sembra in grado di cogliere le canzoni direttamente dall’aria attorno a sé, ma è al tempo stesso giocoso e schivo, e soprattutto mai pomposo. A vederlo saltare felice sulla scena non pensereste mai che ha antato queste stesse canzoni tutte le sere per gli ultimi tre anni. E, cosa ancor più strana, la loro recente ubiquità non sembra aver tolto potenza alle canzoni, che al contrario paiono aver acquisito la patina di moderni classici". Non male per una band la cui più grande soddisfazione fino a poco tempo fa sembrava l’essere diventati amici del loro idolo giovanile Ian McCulloch (cantante di Echo & The Bunnymen, con il quale Chris Martin scambia ospitate nei reciproci dischi e concerti e del quale dice "mi ha molto aiutato a crescere, ad esempio a dare la giusta importanza - cioè nessuna - alle recensioni negative"). Alla fine è incredibile come questo quartetto di anti-stars sia diventato una delle più famose rock band del mondo. Perfino il loro modo di intervenire sul "sociale" è del tutto privo della tipica retorica da star-che-si-occupa-dei-problemi-del-mondo. Chris Martin è un anno abbondante che si va vedere in tutte le occasioni mondane con "MakeTradeFair.com" (l’organizzazione che si batte per un commercio equo con i paesi del Terzo Mondo) scarabocchiato sul dorso della mano sinistra: il che fa un po’ scuole medie, ma è pur sempre per una buona causa. Poi ci sono stati i concerti con testi cambiati per includere dichiarazioni anti-guerra e anti-Bush. Ciò che ci piace ricordare è però una dichiarazione rilasciata a NME lo scorso settembre in Messico, in occasione di una manifestazione in appoggio dei locali coltivatori di granoturco messi in difficoltà dall’apertura dei mercati alle multinazionali dell’agricoltura. "Più che una soluzione per i problemi ci consideriamo un mezzo per diffondere un’idea" ha dichiarato Chris, aggiungendo subito dopo che "siamo socialisti che bevono champagne, ma crediamo ugualmente nell’uguaglianza". In bocca a chiunque altro sarebbe suonato come la castroneria del secolo. Chris Martin, che come le antiche dive della reclamé dei dentifrici con quella bocca può evidentemente dire ciò che vuole, è riuscito invece a strapparci un sorriso ed una riflessione.

(da: Rumore, novembre 2003)