BECK
9 marzo 2000. Milano, Alcatraz

di: Fabio De Luca

L’abbiamo scampata bella. Pochissimi lo sapevano, la sera del concerto, ma esisteva un perverso progetto (stessa casa discografica, you know...) di far salire Jovanotti a duettare con Beck sul palco dell’Alcatraz. Per i pochi edotti, il concerto si è quindi srotolato in un misto di ansia ed attesa di farsi quattro grasse risate (mica per altro: come insegna l’insiemistica delle scuole elementari, non si sommano le mele con le arance...). Invece nulla. Jovanotti c’era, ma è rimasto nel recinto dei vip insieme a Piero Pelù. Mentre dabbasso il popolo bue rifletteva sul tempo che, in fondo, nonostante tutto e nonostante Mtv che ha fatto di Sex Laws un futuro classico da One Shot ’90, non è passato. Perchè le differenze con uno qualsiasi dei concerti di Beck visti negli anni passati (ne ricordo uno scalcinatissimo cinque anni fa a Roma, su un argine del Lungotevere, dove gli unici vip erano i commessi di Disfunzioni Musicali) dal punto di vista squisitamente tecnico sono davvero irrilevanti. Ci sono due coriste di colore, c’è la sezione fiati, c’è il pianoforte sulla pedana girevole, c’è il dj che scratcha Smoke On The Water e c’è lo scherzare con gli stereotipi ora del glam ed ora del crossover (oltre al sold-out già dieci giorni prima del concerto), ma Beck sembra in tutta franchezza non averne un disperato bisogno. Guarda caso il concerto lo apre Beercan (da Mellow Gold, nientemeno), e guarda caso il primo momento di reale enfasi collettiva sarà Loser, cantata in coro all-together anche se in realtà nessuno ha mai capito cosa accidenti dicesse Beck nel verso precedente a "I’m a loser baby/so why don’t you kill me". Il resto è contorno, guscio d’uovo. La mirrorball sú in alto, la scena foderata di carta stagola ed attraversata da tubi che sembrano il serpente di pezza dell’Ikea, le luci fisse (bellissimo l’effetto) verdi e arancioni: quello che ricordano è più che altro uno studio tv o il set di un videoclip (o uno studio tv ricostruito per un videoclip). Qualcosa di allestito più per tenere buono il manager che da dietro le quinte - come quello nella pubblicità dei tortellini - gli dice "fai il singolo, fai il singolo!". Una superstar per buffa coincidenza spazio-eco-temporale. Come tutta l’intera generazione slacker di cui è stato involontario poeta: improduttiva e senza futuro certo, ma che adesso - al giro successivo - si trova (di nuovo senza nemmeno volerlo) a guidare il processo produttivo dall’alto di software-houses ultra indipendenti e networks di e-commerce solidale. Beck, piccolo, biondo e strizzato nella sua camicina, continua ad essere il loro eroe.

(da: Rumore, aprile 2000)