Com'è umano lei (dopo tutto) [voto: 5/5] Che i due fichetti francesi ci stiano menando per il naso non è più nemmeno un dubbio o qualcosa su cui interrogarsi. È una meravigliosa, fantastica, luminosa certezza: una verità talmente ovvia e universalmente condivisa da non richiedere nè dibattiti nè tavole rotonde. È così, ci stanno menando per il naso. Ormai da qualche anno è una sfida a che si stufa prima: loro di percorrere la loro apparentemente inesauribile escalation di improbabilità o noi di farci abbindolare felici dell’essere abbindolati? Si profilano all’orizzonte tutti gli estremi di un tipico rapporto disfunzionale in cui i due fichetti fanno i loro porci comodi e noi sempre qui a giustificarli, a dire checcariiiini, a complimentarci - addirittura - per il raffinato detournement che si cela dietro l’improbabilità. Due o tre spiegazioni per chi fosse all’oscuro delle puntate precedenti: i Daft Punk sono due fichetti francesi. Il loro album di debutto, Homework, uscito nel 1996 (quando i due fichetti avevano rispettivamente vent’anni e ventuno) è forse il più significativo album “dance” dai tempi di certi dischi degli Chic e di Giorgio Moroder: un disco che inventava tutto pur riciclando a man bassa (dalla house di Chicago, dall’acid, dal funk anni Ottanta), e risultando in questo straordinariamente in anticipo sugli scenari elettronici degli anni successivi. Da allora i due fichetti francesi si sono imbarcati in una personale grandeur che li ha portati a concepire fra il resto: un costosissimo film d’animazione con il guru giapponese degli anime Leiji Matsumoto, due costosissimi mascheroni robotici con addosso i quali farsi ritrarre in molto plastiche pose, un secondo album di disco anni Ottanta genialmente cammuffata, un piacevolmente ininfluente album di remix commissionati ai più costosi remixatori del pianeta. Il che ci porta al nuovo disco. Che - ricordiamocelo - è una truffa. Un disco quasi trasparente da quanto è privo di idee, e in cui quelle poche sono ripetute all’infinito (come la voce che sussurra il titolo di Steam Machine per cinque minuti; come il riff metallaro del singolo Robot Rock). Ma ecco il colpo di genio: come in certi processi di lavaggio del cervello propri delle sette religiose, Human After All utilizza la pratica della reiterazione per condurre da un lato alla sottomissione emotiva, dall’altro all’estasi. E, porca miseria, funziona! Al terzo ascolto la trasparente pochezza diventa sublime minimalismo, e i pezzi che non decollano mai diventano esemplificazione della pratica sessuale tantrica del rimandare all’infinito l’orgasmo. Al quinto ascolto gli darete anche voi il massimo dei voti. (da: Rolling Stone, aprile 2005) |
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