“Lights go out, walls come tumblr down...” a No, questo blog non chiude. Cambia un po’ formato, ma neanche tanto, e apre una nuova vetrina. L’intuizione mi ha folgorato la notte del 25 settembre. Credeteci o no, ma nei mesi di “forbidden” e “not allowed”, fra le varie cose, ho anche ragionato a lungo sul senso ultimo e sul format di questo blogghetto. La schizofrenia tra post di 30.000 battute e post di una riga - e tra setimane di posting intenso e mesi di silenzio - è fantastica, la adoro, ed è esattamente quello che avevo in mente fin dal principio. Ma per quanto uno provi a vivere al di fuori dalle regole, nel momento in cui c’è uno scambio con l’esterno le regole (grande lezione di vita) tendono comunque a strutturarsi. Non fosse altro, sotto forma di comments che, giustamente, si lamentano di un blogghetto lasciato allo sbando.
Serviva un formato diverso, e il formato diverso eccolo qua - oplà, ci voleva tanto? Due velocità, come i frullatori, come la vecchia jungle, quella delle origini, quella prima che si cominciasse a chiamarla drum’n’bass: il basso che va ad una velocità e la batteria che raddoppia la stessa velocità. Come a dire che: di qua verranno occasionalmente pubblicati post più lunghi, e verrà finalmente aggiornata, un po’ per volta, la sempre amata colonna di sinistra; mentre di là si faranno le micro-speculazioni sul quotidiano. Inoltre, gli eventuali post pubblicati di qua, più tutti gli aggiornamenti della colonna di sinistra, verranno tempestivamente segnalati di là. Sempre di là dovrebbero già essere attivi i feed (spero, non ho controllato).
Come dicono i Casino Royale, ci vediamo di là. Now you are allowed. |
Il Paradiso probabilmente Alla tivù c’è Enrico Ghezzi (fuori campo, al telefono, con sotto immagini di bagnanti credo francesi e credo anni Trenta) che paragona Romher a Ozu e parla di catastrofi. Se penso al Paradiso io lo immagino così. |
a Molto piccole. Comunque sono felice di dire che è la prima volta in tutta la mia vita che ho chiesto un autografo. Neanche a Morrissey, per dire. Neanche ai Daft Punk. Anzi, in realtà - ma era veramente un miliardo di anni fa - mi ero fatto autografare la copertina di Tim dai Replacements. E un’altra volta, sprezzante del pericolo, mi ero fatto autografare non ricordo se un cd o una raccolta di poesie da Nick Cave (ma era per conto terzi e quindi non conta).
Ciò detto, intervistare quest’uomo per me è come fare il tagliando al mio inconscio: ogni dieci anni circa sento la necessità di farlo (la scusa stavolta è stata l’imminente ripubblicazione del tormentone par excellence in folle versione poliglotta) e ogni volta ne esco rinnovato, ritrovato, sollevato, più sereno e persino più bello. Mi sarei anche già prenotato per il 2017, ma lui ha detto «vabbè, poi vediamo».
Ah, a poche decine di metri dall’ufficio di Cecchetto c’era pure il Gabibbo (quello vero) che faceva un servizio su non so che scandalo edilizio di cantiere aperto da anni e appalti truccati. Così ho scoperto che il Gabibbo ha un coach che gli dice robe tipo: «apri bene la bocca che è solo quello che si vede in tv». Direi che per oggi in quanto a cultura pop sto a posto. |
Remixare è essenzialmente una questione di mano a Maz mi (e quindi vi) segnala un emozionante bando di concorso per remixare Signs Along The Path dei Blonde Redhead. Al link trovate le singole tracce del pezzo come mp3 o come file per Garageband. Una versione gabber dei Blonde Redhead è esattamente ciò di cui il mondo avrebbe bisogno in questo momento, lo so: peccato che non ho tempo, non ho voglia, non ho il background tecnico culturale per farlo.
Invece per, uhm, farvi la mano nel caso non abbiate pratica di remix, qui c'è un demenziale tool per remixare online Glamourama di Photek (ve la ricordate? a me faceva impazzire) e costruire relativo video porno (in bassa definizione ma comunque NSFW, occhio). Il mondo è impazzito, sì, ma ce la possiamo ancora fare. |
«Go ahead, make my day» a “Un alieno petomane ti dice “spiegami cos’è il rock” e tu, senza tante menate filologiche, devi mettere a punto un listone con 25 singoli prima che lui attivi il suo culo disintegratore…”a*aa** |
Unire i puntini, trovare la soluzione a Due notizie tecnicamente unrelated, che però alludono - forse - ad un disegno più grande, ancora da compiersi.
La prima la riporta oggi il Guardian (che a sua volta cita come fonte una blogger inglese, pare autorevolissima, tale Victoria Newton). La notizia è che Pete Doherty starebbe valutando se unirsi a Scientology. Anzi, ehm, questo è quel che strilla il titolo: l’articolo poi spiega che, in realtà, sembra che Pete sia finito dentro ad un trip mistico in conseguenza del quale sta divorando l’un dopo l’altro libri di varia ispirazione religiosa, ed in conseguenza di ciò abbia di recente acquistato per corrispondenza anche alcuni dei testi base di Scientology. Nota del Guardian: «But Kate told him she thinks he is being daft and that he should leave it alone».
La seconda è vecchia di quasi dieci anni, ma io l’ho scoperta soltanto oggi. Pare che Sandie Shaw (sì, quella Sandie Shaw, la cantante scalza, quella poi recuperata da Morrissey nel 1984 per la miglior cover degli Smiths ever) adesso lavori come “consulente e psicoterapista” presso The Arts Clinic, una struttura - spiega l’imperdibile brochure - «dedicated to promoting and developing the well-being and full creative potential of those in the entertainment and media industries. We offer advice, coaching, mentoring, counselling, psychotherapy, creative management... whatever it takes... whatever the problem...». Me la immagino un po’ come la Katherine Ross psicoterapeuta in Donnie Darko.
Pare comunque che tra le specialità della clinica ci sia pure “drugs don’t work anymore? tell us about it!”. Qualcuno li metta in contatto. Subito. |
L’ora della musica alla casa di riposo Beyond Baroque Gerald Casale (dei Devo) alla voce, e Vale (la mente dietro la storica rivista statunitense di controcultura RE/Search) al piano, eseguono Mongoloid, dei Devo, lo scorso 28 aprile, all’after-party della festa per la ripubblicazione di “RE/Search #6/7: Industrial Culture Handbook”. Qui il video. La sfumatura giallina della ripresa certo non aiuta. |
a Dopo “The Rapture versus Justice” nel caso giudiziario più affascinante delle ultime settimane (roba che il plastico di Cogne gli fa un baffo), per il nuovo video qui dei Digitalism, Pogo, a risentirsi dovrà essere come minimo Vanessa Beecroft. (O forse The Rapture di nuovo, visto che il pezzo nel ritornello dice «Yeah, woohoo» e anche loro una volta in un pezzo avevano detto «Yeah, woohoo»). |
a Nonostante il perdurante effetto-Sarabanda (per cui alle spalle della consolle era tutto un «Crescendolls!», «I-Robots remixati da Boys Noize!», «Vicarious Bliss!» eccetera). Nonostante il “Capaci Tutti remix” di You Can Call Me Al (istruzioni: si prendano le prime otto note di You Can Call Me Al, le si ripeta all’infinito sopra Never Be Alone. Fatto). Nonostante Xavier, il Dorfmeister dei Justice, sfoggi una notevole faccia di cazzo (al punto che se stasera si fosse indetto un contest per la faccia più di cazzo, egli sarebbe arrivato agevolmente secondo). Nonostante tutto questo, il set dei Justice è stato un grande set.
Immaginate il Gods Of Metal. Adesso immaginate il Gods Of Metal con headliner Michael Jackson. Ecco.
I Justice sono la cosa più emotivamente vicina al metal mai uscita dalla scena elettronica. E non solo per i cursori tirati a +11 come fossero l’amplificatore in Spinal Tap. Non solo per le spie in saturazione che bucano le orecchie dal primo minuto all’ultimo. Non solo per il sebastiAn remix di Killing In The Name (anche se ovviamente c’era anche lui). La natura metal dei Justice è qualcosa che ha a che fare con una sorta di lucidissima, inaspettata forma di “cognizione del dolore” che pervade l’intero set. Una sua accettazione fisica (il volume, i sequencer acidi, le orecchie che fischiano) che diventa anche penitenza, espiazione. Come del resto splendidamente sintetizzato dal logo scelto dai Justice: la gigantesca croce che intitolerà - “†” - anche l’album di prossima uscita. Ce n’erano a decine stasera, enormi, di polistirolo: appese al soffitto fino a che una dopo l’altra non sono state tirate giù dai ravers e quindi passate di mano in mano, sopra alle teste, in una straordinaria metafora electro di via crucis. Non si sa se qualcuno si sia ritrovato, al riaccendersi delle luci, pentito o convertito. |
Mixing in the name Come segnalato ormai già da mezzo mondo, sul blog di Pig Mag c’è in download e/o streaming la registrazione integrale del set di sebastiAn alla festa milanese di Pig di tre settimane fa (quella da cui io sono scappato cinque minuti dopo esserci arrivato perchè il polline si è impossessato del mio naso, dei miei occhi e forse anche della mia anima). Se ne ascoltate i primi dieci minuti già ci trovate la perla: il re-edit di Killing In The Name dei Rage Against The Machine fatto da sebastiAn medesimo (anche se da qualche parte si sostiene il remix sia farina del laptop di Mr.Oizo). Se andate ancora avanti, a un certo punto arriva pure My Generation degli Who, e in mezzo una specie di Festivalbar di tutta l’electro “che conta” degli ultimi otto mesi.
Già che siamo in tema: un breve ma notevole dj-mix di Diplo pubblicato l’altroieri sul suo MySpace taglia e cuce in poco più di 15 minuti electro storta e hit superfamose (tipo Bette Davis Eyes, per dire). E per finire: lo sto ascoltando mentre scrivo e non mi pare male, il set uploadato ieri dal collettivo nu-rave veneto Excuse Me. |
Come si cambia (in meno di un mese) Appena uscita, la cover di Stop Me degli Smiths fatta da Mark Ronson mi provocava l’itterizia. Adesso (nel frattempo: è numero 7 nella rotation di Radio DeeJay e i due della mattina già parlano di tormentone dell’estate, nientepopò), adesso non posso farne a meno. Qui il remix di Kissy Sell Out - un po’ meno hic-hic-singhiozzante dei suoi standard - che ne estrae aspetti kraftwekiani insospettabilmente sepolti nell’originale. Off topic, ma già che siamo in tema di remix: qui invece uno spettrrrrrale remix di Nathan“non mi merito il mio cognome”Fake per MyBest Friend di Annie. |
«Io ce l’ho più lungo» (il filo dell’alimentatore) a aa a Ovviamente la irresistibile serie di spot “comparativi” PC/Mac (qui sopra uno degli episodi più recenti, quello con ospite Giselle Bundchen) ha generato tonnellate di parodie. Nessuna però regge il confronto con la comparazione DC/Marvel dell’altro video linkato qui sopra...
Invece, tornando alla serie di partenza, c’è un episodio che per gli innuendo razziali (e non solo) dovrebbe per forza di cose essere uno spoof ma talmente indistinguibile dall’originale da far sospettare il viral: Once you go Mac, you never come back. |
Come Gigi Sabani quando imitava Enzo Tortora: «Horrrrore!» a
a Nuovo record stagionale: per sette minuti e cinquanta secondi The Horrors, ieri sera, sono stati il mio gruppo preferito del mondo intero. Il tempo di entusiarmarmi per le prime tre variazioni sul tema “Touch Me I’m Sick versione Sonic Youth rifatta dai Cramps”: poi, alla quarta variazione sul tema, avrei volentieri cosparso di Diavolina il palco del Rainbow e dato fuoco al medesimo con tutto quel che conteneva in termini di straccetti nerofumo, impalcature tricologiche e fantasmi dei Bat Club passati. Quei sette minuti e cinquanta però me li sono proprio goduti. In generale, poi, il revival di una cosa che già era revivalistica al giro precedente (goth/garage/r’n’r) a me diverte parecchio proprio come concetto, perchè è un’esperienza ormai completamente giapponese, totalmente immaginata, totalmente artificiale, appena un centimetro più in qua delle convention di impersonatori (giapponesi) di Elvis.
Ma parliamo invece delle cose serie: ci fu un tempo in cui di musica sapevo tutto io, spiegavo tutto io, e il mondo pendeva dalle mie labbra. Adesso invece vado ai concerti e mi trovo di fronte a gruppi spalla di cui fino a due nanosecondi prima ignoravo, beato, l’esistenza. A Milano, però, ai concerti ci va anche il Papa laico cascinotto Fred Ventura, l’uomo che ogni collezionista di dischi vorrebe accanto al suo cappezzale nel momento del proprio trapasso (io almeno lo vorrei, figurandomi la scena un po’ come un quadro del Mantegna: io nella parte della Vergine e Fred Ventura, Enzo Polaroid e Giorgio Valletta in quella dei tre cerusici). Insomma, «ci sono i Dandi Wind come gruppo spalla!» mi saluta il Papa laico cascinotto Fred Ventura. «Ah» rispondo io. «Canadesi!» aggiunge lui. «Ah» replico io. Bene: i Dandi Wind sono composti da una sosia rrriot-spandex di Enzo Truciolo Avallone - sexy come una lumaca che ti cammina sui coglioni - e da un incrocio tra Enzo Truciolo Avallone e Max Stefàni adolescente. I Dandi Wind suonano come se al mondo non fosse mai esistito null’altro a parte i dischi dei Krisma e Blue Hotel di Lene Lovich. I Dandi Wind non è che facciano cacare (a me ad esempio non sono dispiaciuti, ma si sa, io ho dei gusti da disc-jockey magiaro), però fanno riflettere sulle colpe di MySpace in termini, come dire, evolutivi. Di evoluzione del gusto, cioè. Fanno riflettere molto in profondità. |
Come Kylie a Glasto Appuntamento in collinetta: si riforma per il sabato notte del MiAmi la coppia storica di Weekendance (il-programma-radio, non questo omonimo blogghetto). In realtà trattasi di tributo al Planet Rock che fu, ma si balla lo stesso. |
a «Cosa ci facciamo qui?» dice Groupie Di Quarant’Anni. «Quello che ci abbiamo sempre fatto da più o meno una vita» dice Sovrappeso Di Cinque Chili: «in coda per ricevere i nostri amichevolissimi biglietti gratuiti per poi contemplare lo spettacolo meraviglioso del rock and roll e poterci languidamente lamentare del fatto che l’acustica, che il gruppo, che la birra sgasata, che la mancanza di stile del pubblico». «Ok, ma vi rendete conto che siamo i più... vecchi nell’arco di almeno sei chilometri quadrati?» «Non si dice vecchi, si dice “anagraficamente svantaggiati”. E poi, ripeto, ormai dovresti esserci abituata». «Conoscerete la nostra velocità» dice Dodici Amici Incluso Tom all’indirizzo della fila dei paganti adolescenti che scorre molto, molto più lenta della loro fila di imbucati di lusso. «Cristo, entusiasmarsi per questi Kazzons» aggiunge, inumidendosi un dito e grattando via una microscopica macchiolina di fango dai sandali turchesi Nancy Kim for Devotte. «Io già ero nu-rave quando voi nemmeno sapevate cos’era un rave» dice Sovrappeso Di Cinque Chili notando che, nonostante le epidermidi butterate, le ventenni con le t-shirt punk tribali e gli orecchini di plexiglas glielo fanno comunque diventare duro. «Dimmi di nuovo» chiede Groupie Di Quarant’Anni a Sovrappeso Di Cinque Chili: «cos’è che siamo noi?» «“Anagraficamente svantaggiati”» «O anche: “Diversamente giovani”» aggiunge Il Primogenito È Morto, che fino a quel momento era stato, come al solito, in silenzio. «Ah!» esclama Groupie Di Quarant’Anni. «E dimmi: in questo modo un single potremmo definirlo “In attesa di un legame”, no?» «E una vergine potremmo chiamarla “In attesa di prima scopata”» dice Dodici Amici Incluso Tom. «E quando una moglie viene scaricata dal marito per una più giovane si potrebbe parlare di “Rottamazione”» dice Sovrappeso Di Cinque Chili. «E uno scaricato dalla moglie per uno più ricco si potrebbe chiamarlo “Oggetto di ricapitalizzazione del leasing matrimoniale”». «E una divorziata ancora in forma si chiamerebbe “Usato sicuro”». Bum.
«Comunque “in attesa di un legame” è splendido» conclude Groupie Di Quarant’Anni senza rivolgersi a nessuno in particolare, «dà l’idea di qualcuno al telefono che ascolta il disco registrato di un call center». «È esattamente così che funziona per i single, nel caso te ne sia scordata» risponde Sovrappeso Di Cinque Chili. «Giri per bar e vernici aspettando qualcuno che ti risponda, e l’unica cosa che non ti fa smettere è quel disco dentro la tua testa che ripete di rimanere in linea per non perdere la priorità acquisita. Ti convinci che perché hai aspettato degli anni adesso l’attesa dovrà per forza essere breve, ma non è esattamente così». Un adolescente pagante e allampanato, con una t-shirt verde “I’m shy, kiss me first” e un pomo d’adamo appuntito come avesse inghiottito una spigola intera, si gratta le palle, non si capisce se per noia o scaramanzia.
Groupie Di Quarant’Anni, Sovrappeso Di Cinque Chili, Il Primogenito È Morto e Dodici Amici Incluso Tom non hanno storie sentimentali da circa due anni e mezzo, ed anche prima non ne hanno mai avute tra di loro. È successo così. Sono una specie di società di decorosissimi naufraghi del vivere metropolitano il cui stile di vita rappresenta la razione d’emergenza data in dotazione agli abitanti di questo mondo, la scatoletta di pronto soccorso impermeabile ed ignifuga che mai nessuno apre a meno che non sia, appunto, naufragato. Ciò che li lega - al di là della fascia anagrafica di appartenenza ed una generica comunanza di interesse per la medesima tipologia di consumi culturali - è il fatto di rispecchiarsi l’uno nello spaesamento e nel basso livello di serotonina dell’altro. Oltre alla vaga, infantile speranza di essere diventati una specie di team di supereroi dai superpoteri - purtroppo - totalmente inutili al resto dell’umanità, ma pur sempre superpoteri, e come tali una figata, anche se portatori con sé di superproblemi, primo fra tutti quello dell’Identità Segreta.
Ad esempio. Groupie Di Quarant’Anni ha, appunto, quasi quarant’anni. Sfoggia un impeccabile look Party Di Presentazione Glastonbury 2007, ed è dalla seconda metà degli anni Ottanta che pratica una sorta di versione casta della vita da groupie. Ciò significa che la cosa più vicina allo stile di vita groupie che le sia mai capitata è stata farsi abbordare da un nanerottolo stempiato che si era presentato come l’assistente del tizio che aveva animato al computer il cartoccio del latte nel video di Coffee & TV dei Blur. Senza nemmeno andarci a letto, fra l’altro (tre gradi di separazione con Damon Albarn non sono abbastanza, onestamente, per decidere di svegliarsi il mattino dopo con i peli ed i liquidi organici di un vice-animatore di cartoni del latte dentro il proprio futon). Certi giorni Groupie Di Quarant’Anni è un’antenna in grado di captare tutte le trasmissioni satellitari del Mondo. Altri giorni ciò su cui riesce a fermare la sua attenzione non va oltre una indefinibile sensazione alla bocca dello stomaco, come di fame e sazietà al tempo stesso, come se dentro ci fosse un’anaconda che stritola un’antilope che ha appena divorato un intero cespuglio di bacche; quello stesso mix di forza, eleganza, disperazione e, soprattutto, ineluttabile ciclo della natura. Il Grande Segreto di Groupie Di Quarant’Anni è che, a differenza degli altri tre, ha una Vita Sessuale: solo che preferirebbe morire piuttosto che far sapere agli altri tre che la sua Vita Sessuale consiste nello scopare con Apprendista Stangone, giovane account di un noto franchising finanziario con l’hobby del surf e l’intelligenza di un mazzetto di asparagi.
«Ecco: il prossimo Natale regalerò a tutti voi delle scatolette nere di tek con dentro la scritta “brand:old” in neon rosa che si accende» dice Dodici Amici Incluso Tom su di giri per l’atmosfera di happening. Ancora più del solito, questa sera, lei e gli altri tre sono un’isoletta mentre tutto attorno imperversa la primavera profumata degli occhiali oversize, dei Cheap Monday attillati, della plastica fluo, delle righine. Sembra di stare nella palestra di qualche college americano del 1970 subito prima del ballo di fine anno. «Ehi, vi siete accorti di quanto sorridono questi qui?» osserva Groupie Di Quarant’Anni subito prima di tenere fede al suo nome e di attaccare bottone con il ventitreenne bassista della band-locale-di-cui-tutti-ma-proprio-tutti-parlano. «The Bradshaw must go on» dice a mezza voce Sovrappeso Di Cinque Chili con l’inespressivo distacco di chi è abituato a fare battute troppo multi-strato perché gli abitanti di questo pianeta possano capirle.
Sovrappeso Di Cinque Chili è un quasi-quarantenne dall’aspetto arruffato e vagamente assente: indossa lussuosi occhiali da nerd, lavora come editor in una casa editrice di medie dimensioni ed è, appunto, sovrappeso di cinque chili. Lo è da tutta la vita, praticamente da quando è nato. Apparentemente non c’è modo, per lui, di smaltire quei cinque chili di troppo. Ha provato con la dieta crudista, quella metabolica, con la nutrizione dissociata, con il metodo Kousmine, con la ginnastica aerobica, il jogging, ma niente: «è come se fossi incinto di un piccolo mostro di molecole lipidiche che si rifiuta di nascere. Forse dovrei farmi prescrivere un sacchetto di RU-486 e provare a sgranocchiarle davanti alla tele come fossero cioccolatini».
«Dicci ancora dello Scoiattolone» butta lì Dodici Amici Incluso Tom. «Ve lo giuro, l’ho visto coi miei occhi: lo Scoiattolone Nocciolone sul lungomare aveva tra le mani un iPod!». Lo Scoiattolone Nocciolone sarebbe uno di quei pupazzi - colorati come un raver del 1992 - che si accendono infilandoci una moneta da un euro e su cui i bambini salgono a cavalcioni. In effetti lo Scoiattolone Nocciolone in questione tra le mani, anziché una nocciola, aveva proprio un iPod. «Una scatoletta bianca con su scritto “IPOD”, ma senza jog-wheel rotonda. E aveva gli earplug bianchi sulle orecchie!» dice Sovrappeso Di Cinque Chili, entusiasta. «Sarà stato uno Shuffle» dice Dodici Amici Incluso Tom. «Era troppo grande» «Stupido, quanto vuoi che sia grosso, nella realtà, lo Scoiattolone Nocciolone? Un iPod Shuffle nelle sue mani sarebbe grande quanto una scatola di cereali nelle mani di un bambino».
Questo solo per dire che il Grande Segreto di Sovrappeso Di Cinque Chili è che passa ore - tutti i giorni - ai giardini o sul lungomare quando è al mare, guardando i bambini che giocano: soprattutto quelli piccoli, sotto i tre anni, cercando di intravedere le loro potenzialità in quel momento ancora perfettamente integre, e cosa potrebbero diventare vent’anni dopo se solo la vita li lasciasse entrare senza perquisirli all’ingresso.
“Tu a venticinque anni scoprirai un numero primo divisibile per due” “Il tuo sorriso sarà contagioso per tutti quelli che ti conosceranno” “Tu ti appassionerai all’azoto liquido e definirai nuove frontiere nella cucina molecolare” “Tu non sarai mai sola”.
Poi in genere alza gli occhi, vede le spaventose famiglie dentro cui quei marmocchi coraggiosi sono venuti al mondo - nonne rancorose e fumatrici, madri tese come trafficanti di oppio, padri increduli quasi fossero stati catapultati dentro la loro attuale età anagrafica da una bizzarra macchina del tempo - e cambia le sue profezie in cose tipo:
“Uno sciocco burocrate, di ritorno da un pranzo in cui la figlia diciassettenne gli ha comunicato che è incinta e che intende tenere il bambino, cestinerà la tua iscrizione Erasmus all’università di Bordeaux IV, e questo ti getterà in un buco di depressione da cui non uscirai mai più” “Dai ventidue anni in avanti, e per tutta la vita, la tua migliore amica sarà una pipetta da crack” “Mai bere e poi guidare. Mai” “Per quelli del McDonald in galleria del Duomo sarai la vecchia che passa qui il pomeriggio ordinando patatine e una Coca Light, tutti i giorni”.
Sovrappeso Di Cinque Chili ha anche un altro Grande Segreto. Ogni volta che entra in un luogo affollato, come un centro commerciale, una discoteca, o una stazione ferroviaria, la prima cosa a cui pensa è “chissà chi sarà la prima a morire tra le persone qui dentro”. Non che il pensiero gli serva ad esorcizzare una qualche paura della morte, anzi: più il tempo passa, e quindi sia sempre di più lui la persona statisticamente più prossima alla morte, più Sovrappeso Di Cinque Chili si sente sereno. Come se nel diventare la potenziale vittima sacrificale del Dio Dei Centri Commerciali E Delle Stazioni Ferroviarie avesse finalmente trovato un suo ruolo, una sua funzione sociale.
Kazzons. Uuuuuuu ahhhh Uuuuuuu ahhhh Light touch my hand in a dream of golden skans from now on You can forget our future plans! Dodici Amici Incluso Tom è quella che stasera se la sta spassando più di tutti. Il Primogenito È Morto dice che è perché Lanterna Verde in persona le ha donato l’anello dell’oblio, ovvero il superpotere di scordarsi di avere poco meno del doppio dell’età anagrafica legalmente accettabile per abitare il diritto di divertirsi & cazzeggiare ad un concerto rock. «Niente bonghisti, niente coscienza di classe marxista-leninista, droghe fuorerrime. Avere vent’anni oggi è una figata!» dice Dodici Amici Incluso Tom. «Ehi, voglio rinascere qui, adesso. Voglio vivere per sempre. Voglio accedere al mio stato di coscienza definitivo». Dodici Amici Incluso Tom somiglia a un incrocio tra un topolino di campagna ed una bambola Barbie Paleontologa. La cosa più rilevante fatta da Dodici Amici Incluso Tom negli ultimi mesi è stato aprire un profilo su MySpace, chiedere a Morrissey e ad un’altra decina di gruppi che ascoltava da adolescente di accettarla come amica, creare un delizioso gif animato “thank you for add!” pieno di conigli e gattini, e poi - aspettando che succedesse qualcosa - tornare a fare il giro dei pub e dei bar alla moda all’ora dell’aperitivo ordinando daiquiri alla fragola e negroni sbagliati. Fino ad oggi, in realtà, l’unico risultato concreto di quella pagina MySpace è stato di farla litigare con Il Primogenito È Morto, il quale sosteneva che MySpace è “come un blog per chi non ha le palle di avere un vero blog”. Dodici Amici Incluso Tom si era incazzata moltissimo, e poi aveva anche pianto dicendo che lei era brava e non si meritava di essere trattata così. C’era voluto un intero pomeriggio (e tre daiquiri alla fragola) per consolarla.
Il Grande Segreto di Dodici Amici Incluso Tom è che... beh, è segretamente innamorata di Il Primogenito È Morto da tempo immemorabile. Solo è convinta che lui sia segretamente innamorato di Groupie Di Quarant’Anni (in effetti Dodici Amici Incluso Tom è convinta che chiunque a questo mondo sia innamorato di Groupie Di Quarant’Anni) e questo non lascia molto spazio a nessun possibile, uhm, sviluppo. Per la cronaca: Il Primogenito È Morto non è innamorato di nessuno, non è mai stato innamorato di nessuno e difficilmente lo sarà in futuro. In generale, Il Primogenito È Morto non ha mai provato altri sentimenti al di fuori di delusione e paura del vuoto esistenziale. Questo tanto per essere chiari.
Dodici Amici Incluso Tom ritorna dalla transenna dove ha scambiato goccioline nebulizzate di sudore e sigarette con le sue nuove amiche del cuore dal rossetto fucsia e dalle magliettine a righe. «Tururù-tururù-turuturu-tururù, fratellis e sorelles, eccos a vois la plus cool fille de la soirée: moi!». Sovrappeso Di Cinque Chili è stato addato a una conversazione tra un giornalista di Blow Up e una producer di Mtv in cui le parole chiave sembrano essere “sebastiAn”, “Erol”, “Mr.Miyagi” e “Switch”. Groupie Di Quarant’Anni ha la faccia incazzata, maledice il giorno che ha deciso di venire in questo kindergarten e chiede quando finirà la lagna. Il Primogenito È Morto non dice una parola.
Il Primogenito È Morto è il secondogenito di una coppia di gemelli il cui primogenito è, appunto, morto. «Come Elvis Presley!» dice sempre Il Primogenito È Morto. «Come il secondo album di Nick Cave And The Bad Seeds!» gli risponde Sovrappeso Di Cinque Chili. «Oh-Looka-Yooon-der! A big black cloud come!» concludono entrambi in coro. Il Grande Segreto di Il Primogenito È Morto è che il primogenito, in realtà, non era morto. O per lo meno: il corpo era nato morto, ma tutto il resto si è trasferito nella testa del secondogenito, e i due avevano convissuto benissimo - due teste dentro alla stessa testa, come certi cattivi spaziali dei cartoon di Go Nagai - fino a che a diciassette anni il primogenito (morto) non fece un certo discorsetto al secondogenito (vivo). Gli disse: «uhm, sai, è un po’ che ci pensavo... credo che andrò via. Vorrei vedere l’Europa e vorrei scopare un sacco di donne diverse, e... sinceramente non mi pare che tu sia il compagno adatto con cui farlo. È stato bello stare con te questi diciassette anni, te lo giuro, ma pensavo appena possibile di trovarmi un altro corpo dove stare». La mattina dopo già se n’era andato.
Ritrovatosi per la prima volta completamente solo, Il Primogenito È Morto provò un senso di perdita e di tradimento che lo lasciò senza parole e in preda alla più completa desolazione per anni interi. In breve scoprì che con la voce del gemello se n’era andata anche quella capacità di dare una risposta ad ogni domanda che lo aveva salvato fino ad allora, e la vita per lui divenne una sequenza di interrogativi e richieste a cui non sapeva come fare fronte. Diventò taciturno e introverso, al punto che oggi alcuni tra quelli che lavorano con lui allo studio di architettura dove è il più anziano esperto di CAD sostengono di non aver mai sentito il suono della sua voce. In un cassetto chiuso a chiave sotto la sua postazione di lavoro, Il Primogenito È Morto conserva un’ecografia sua e del gemello sulla quale, all’età di dodici anni, aveva applicato dei trasferibili R41 raffiguranti un uomo in grisaglia e pipa, una donna con un grosso cappello, e poi la scritta “LA noSTRa FAMigliA” fatta con gli avanzi di un foglio Vibo Helvetica 12,5.
Horses want to dance but find their wings are damaged / water damaged
Però, stasera. Il suono è lattice appena intagliato, è gomma americana. Basta masticarlo per un minuto e, oplà, ecco tutta la sua predisposizione gommosa a farsi stirare, gonfiare, infilarsi nelle fessure tra i denti, appiccicare sotto il banco di scuola, amoreggiare con altre palline di lattice. «Vorrei sciogliermi come una scultura di ghiaccio. Vorrei che le mie braccia fossero abbastanza luuuunghe per poter abbracciare tutti, qui, stasera» dice Dodici Amici Incluso Tom sopraffatta dall’emozione, e per cominciare inizia con il prendere sottobraccio Il Primogenito È Morto, che però non si accorge di nulla. Sovrappeso Di Cinque Chili si sente come una chiavetta USB difettosa, come uno sul punto di ricevere una rivelazione a cui però la rivelazione continuasse a sfuggire un istante prima di averla compresa. Se chiude gli occhi vede colonne di codici e cifre senza senso scorrere dal basso verso l’alto, tipo le schermate che nei film di una volta servivano a dare l’idea della massiccia elaborazione dati. E poi creature aliene dalla pelle grigia e dagli occhi buoni come cerbiatti che depositano software rivoluzionari sul World Wide Web terrestre. «Chi ha trovato il nome SoulSeek», pensa, «lo sapeva che c’era di più, dietro. Che le canzonette di lattice erano solo una scusa, che gli Uuuuuuu ahhhh erano solo una scusa, che gli inafferrabili algoritmi di stratificazione delle particelle di bit erano pure quelli solo una scusa. The Kazzons? just a band!. Che in realtà la questione era cercare l’anima, ecco, che la cosa da mettere in condivisione non erano le collezioni di file ma la vita stessa». Sovrappeso Di Cinque Chili pensa che sarebbe buffo se i software più rivoluzionari, il rock’n’roll, il punk, Denny Doherty, Anne Nicole Smith, Robert Anton Wilson e Jean Baudrillard fossero davvero un dono degli alieni. In quel preciso istante il concerto finisce.
Gold is selling well but hurry mighty ocean rising fast A big man with a plan has got a storm a coming / storm a coming
«Benebene. Anche questa è passata» dice Groupie Di Quarant’Anni. «Pronti ad andare?» Il Primogenito È Morto non parla e non si muove, ma visto da una certa particolare angolazione sembrebbe quasi che sorrida. “Ciao Italia, you’re fucking crazy” rimbomba la voce del Signor Reynolds. Da qualche parte qualcuno chiede una sigaretta. |
Adesso no, adesso non ho tempo Se uno avesse la possibilità di clonarsi e di dedicare un proprio clone unicamente all’ascolto di dj set 24 ore al giorno questo blog potrebbe in effetti essere assai utile. |
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Casa» Una delle ottime ragioni per cui questo blogghetto è ultimamente un po’ disabitato (no, non sono in vacanza, non ricordo neanche più se ci sono mai stato in vacanza), è che il proprietario sta traslocando. Non cambiando hosting o domain, proprio cambiando casa. Non vado molto lontano da dove sono ora, circa trecento metri in linea d’aria, ma quei trecento metri (e quei quattro piani a scendere, e quattro piani a salire, fortunatamente con ascensore) oltre a me dovranno percorrerli anche tutti i miei dischi. E i libri, e le pignatte, e le carabattole assortite, certo, ma i dischi sono la cosa che mi fa più paura. Ecco uno di quei momenti in cui vorrei avere quindici anni di meno ed essere un dj chiavetta (e non un vegliardo con alcuni decenni di pomeriggi passati dentro negozi, negozietti - e poi pure su juno.co.uk - sul groppone).
Per varie ragioni il trasloco si svilupperà in maniera omeopatica da oggi al 30 di settembre. Stasera ho fatto il primo viaggio con le prime scatole. Ed è totalmente una coincidenza - per questioni logistiche mi serviva avere libero quel ripiano nella casa vecchia - ma i primi due oggetti ad essere stati portati nella casa nuova sono stati i due Technics 1200... |
a ...e visto che in spiaggia di ombrelloni non ce ne sono (quasi) più, festeggiate l’inverno alle porte e il Natale ormai dietro l’angolo insieme al proprietario di questo blogghetto in due imperdibili Discoinferno-party di fine estate:
• sabato 26 agosto ore 01.30 Morphine @ Cocoricò, Riccione
• sabato 16 settembre ore 23.30 Banano Tsunami, Porto Antico (dietro la pista di pattinaggio), Genova
PS: come di consueto, se siete clienti affezionati di questo blogghetto e ci tenete proprio tanto ad esserci sabato sera al Cocoricò, scrivete entro venerdì sera al solito indirizzo lì in alto a destra e, come fossimo allo Smaila’s in Costa Smeralda, vi faccio mettere in lista (i primi che scrivono, per lo meno). |
«Il riprendersi spazio della realtà, il suo sovrapporsi alla pellicola, da un lato competendo con essa, ma dall’altro completandola» Oggi pomeriggio, verso le 18.30, sulla passeggiata a mare di Nervi, esattamente nel punto in cui giri un angolo e improvvisamente sullo sfondo si vedono il porticciolo e la piscina - e se la scena non vi è nuova avete ragione, infatti sta dentro Palombella Rossa di Moretti - esattamente in quel punto mi è apparso Enrico Ghezzi. Era con una signora non giovanissima e spingeva un passeggino. Sembrava sereno.
UPDATE: l'ho rivisto! Oggi (sabato 19 agosto), alle 13.17, in fondo alla galleria di Bogliasco, lato levante, lui procedeva in direzione Recco, io in direzione Genova (ci dovrò leggere qualcosa, sul fatto che andiamo sempre in direzione opposta? e sempre lui verso est e io verso ovest?). Stavolta non spingeva il passeggino ma portava il bambino a capacecio, sulle spalle. La signora è meno attempata di come mi era sembrata l'altro giorno, ma lui mi è sembrato molto invecchiato rispetto a giovedì. O forse solo stanco.
UPDATE II: Per la seconda volta questo post è scomparso dagli archivi di Blogger e per la seconda volta l’ho ricostruito... Non so se sia «il confronto con l’immagine fantasmatica del testo scritto» o cosa, ma vi dico questo: se sparisce una terza volta io non lo recupero più... |
Ho guidato per tutta la notte. Che detto così sarebbe una perfetta canzone di Bruce Springsteen. Ma la realtà è un po’ meno romantica: in verità ho guidato solo quattro ore, dalle quattro e un quarto alle otto e venti di una domenica mattina, circondato dai miei due anziani genitori semiaddormentati e da tutti i loro bagagli. Quattrocentoventi chilometri di strade scure e sature di umidità come una vecchia cantina, che mano a mano diventavano sempre meno scure e meno umide, fino al trionfo di azzurro cobalto e verde rabbioso - e un’incredibile sfumatura di marrone, al tempo stesso profonda ed elettrica, da vecchia cartolina ritoccata - degli ultimi cento chilometri di autostrada del Brennero, tra Verona e Trento. Fino a un certo punto, fino a che era ancora buio, l’unica compagnia sono stati i bli-blip degli sms com i quali FR Homes mi relazionava della sua notte brava in giro per disco toscane con una cricca di amici gay a ballare i Chemical Brothers. Hey boy, hey girl? La sensazione, Chemical Brothers a parte, è che poteva essere una notte d’agosto del 1984, e potevano essere cartoline imbucate agli autogrill anziché sms. Tanto più che io li ho letti tutti insieme, in una stazione di servizio più o meno all’altezza di Brescia Ovest, esattamente come fossero cartoline ritrovate alla fine dell’estate nella cassetta delle lettere (i primi cinque minuti impiegati a cercare di ricostruire l’esatta sequenza cronologica).
Niente: è successo che tra i doveri di bravofiglio da quest’anno è entrato in top ten anche l’accompagnare gli anziani genitori in montagna con la loro macchina, perché il caldo, il traffico, le strade di ferragosto che richiedono il loro tributo di sangue e tutti gli altri perché che non vi sto a dire. Per farla breve, mi sono ritrovato alle otto di una domenica mattina in un posto che è il posto nel quale ho trascorso tutte le estati dai cinque ai diciassette anni, e nel quale non mettevo piede da, uhm, più di vent’anni, con sei ore di tempo da riempire prima del primo treno utile per scappare via e tornare nel 2006. Sospetto che il mio cervello abbia immediatamente iniziato a processare tutto quello che stava vedendo come fosse parte di una specie di episodio pilota di una nuova serie di Twilight Zone, ma non pensate a nulla di minaccioso o deplorevole. In realtà, mentre mi incamminavo lungo la strada che portava al centro del paese, costeggiando polverosi campi di grano e cespugli di ortica e di quei fiori che schiacciandoli fra due dita fanno “pop”, l’unica cosa un po’ minacciosa che sentivo (e ci ho messo un po’ a capire cos’era) era una totalmente irrazionale paura di incontrare me stesso, in bicicletta, all’età di nove anni. Cioè: che cosa avrebbe pensato del me stesso di ora il me stesso di nove anni? Avrebbe riconosciuto, sotto gli occhiali, sotto la pelle stanca, sotto il sorriso appesantito, qualcosa di familiare? Avrebbe pensato ad un cugino arrivato dall’estero di cui nessuno gli aveva mai parlato? Oppure avrebbe capito subito chi aveva di fronte - in fondo anche se Ritorno al futuro non era ancora uscito, i paradossi cronologici alla Tales Of The Unexpected li conoscevo bene dai fumetti Marvel - e avrebbe detto: «cosa ne hai fatto di me, dei miei sogni, delle mie speranze?». Oppure non avreebbe detto nulla, aspettando che fosse il me stesso di trent’anni dopo a parlare. (E io, cosa mi sarei detto? Cosa avrei potuto dirmi? «Ehi, compra quanti più modellini di robot giapponesi ti riesce, ma non aprirli, tienili chiusi dentro alle scatole originali, così quando tu sarai me li rivendiamo su eBay. No, è troppo complicato spiegarti cos’è eBay. Tu fidati, e diventeremo ricchi»). Oppure ancora avrebbe tirato dritto senza quasi accorgersi di me, registrando appena la notizia della mia esistenza ai margini del suo campo visivo, che sarebbe in fondo la cosa più giusta.
A parte questo, camminare vent’anni dopo dentro il set del proprio passato è una sensazione strana che richiede soprattutto un continuo lavoro di rimessa a fuoco: che ci fa quella villetta bifamiliare con il portico palladiano alla Thomas Jefferson in mezzo al prato? quando avranno aggiunto quel cancello a quel vialetto? e quando avranno asfaltato quella strada? E le parabole sui tetti. L’ultima volta che ho camminato in questo posto non esisteva Sky, non esisteva Google, non esisteva niente di niente. La cosa più moderna che esisteva a quei tempi era una sala giochi con Phoenix e quell’altro pazzesco arcade di pura grafica vettoriale verde e nera dove tu pilotavi un carro armato nel deserto. Anche la televisione esisteva già. Ricordo che l’ultima estate che ho passato qui, il sabato notte con i cugini ci si riuniva a vedere DeeJay Television sull’unico televisore che riusciva, attraverso un pesante velo di effetto neve, a captare Italia Uno.
In realtà non è vero, non è vero nulla. Non è vero che camminare lì era solo una strana sensazione di spaesamento cronologico. In realtà mano a mano che il sole saliva verso il centro del cielo e il caldo aumentava mi sentivo sempre più prigioniero: e non del mio passato, ma del mio presente. E quello che sentivo crescere dentro non era spaesamento, ma la certezza - alimentata dal silenzio e dall’ondeggiare lento del granoturco nei campi - che il mio cuore stesse per spezzarsi in due come un fossile. È stato a quel punto, un po’ prima di arrivare al centro del paese, che ho imboccato una strada secondaria e sono finito davanti all’ingresso del piccolo cimitero locale. Qui mancavo da un po’meno tempo: l’ultima volta che c’ero stato era circa quindici anni fa, per seppellire mia nonna. Era la settimana in cui NME recensiva Beleza Tropical - Brazil Classics Vol. 1 - compiled by David Byrne, quindi doveva essere il 1989. Era la fine dell’inverno, e durante il viaggio avevo letto un romanzo di Nathanael West. Ho superato il cancelletto bianco: le montagne brillavano sullo sfondo come l’etichetta dell’acqua minerale che probabilmente ancora adesso imbottigliano lì vicino, uno o due chilometri da lì. Ho girato un po’ a caso, nel quadrante in cui ricordavo vagamente dovesse trovarsi la tomba. Finchè non è apparsa: una tomba di marmo rossiccio come la vasca da bagno di Robbie Williams. Che strana cosa le tombe di famiglia: per chi è ancora vivo, è come avere una casa al mare nell’aldilà. Per contrasto mi è venuto in mente Johnny Thunders, che nel suo testamento aveva espressamente chiesto di essere cremato e che le sue ceneri, divise in righe, venissero tirate su col naso dai partecipanti alla cerimonia funebre (sembra anche che qualcuno l’abbia fatto).
Insomma, ero lì che girellavo attorno alla tomba di famiglia e perdevo tempo. Ed a quel punto ho cominciato a parlare con te, come ogni tanto faccio ancora, anche se è passato così tanto tempo. Se tu ci fossi ancora, se tu ancora esistessi, probabilmente avremmo litigato, come facevamo sempre. Tu avresti detto che un cimitero non è un posto in cui portare una bambina di pochi anni, io ti avrei detto che al contrario un piccolo cimitero di montagna è il posto ideale per avvicinarsi ad un senso di continuità con il passato, per familiarizzare con il fatto di appartenere ad un mondo in cui prima di te ci sono state altre persone, e insieme a te e dopo di te ci sarà sempre qualcuno, e tutti in qualche modo sono legati tra loro, tutti in qualche modo siamo legati tra noi, dal ricordo e da emozioni strane e spesso incomprensibili. «Vuoi che cresca con la sensazione di essere un puntino solitario nel buio dello spazio oppure sentendosi parte di una costellazione luminosa con un nome belllissimo e misterioso come Orione o Alpha Centauri?», ti avrei detto. Tu avresti chiuso il discorso dicendo «fai un po’ come vuoi», ma sotto sotto so che avresti riso della mia impeccabile retorica. E al ritorno lei ti avrebbe abbracciata e ti avrebbe raccontato del campo di addestramento per cuccioli di cane lupo che c’è subito dietro il cimitero, e dei fiori che schiacciandoli fanno “pop”.
«Papà, perché la gente muore?» «È come il Tetris, piccolina. Fa parte del gioco. A Tetris sai già che alla fine sarà la macchina a vincere, ma la differenza la fa quanto a lungo riesci a far durare la partita, e i punti e i bonus che accumuli.» «Papà?» «Sì piccolina?» «Non ho capito.» «Allora... uhm, lascia perdere il Tetris. Ecco: è come passare dall’asilo alle scuole elementari, o dalle elementari alle medie. Quando cresci non ti diverti più a fare le cose che facevi all’asilo, vuoi farne altre e... per questo vai in un altro posto. Per le persone, quando muoiono, è un po’ così.» «Ah, ecco.»
Secondo me il Tetris è la più perfetta metafora della vita intelligente su questo pianeta. Non solo perché non puoi vincere ma soltanto provare a far durare la partita più a lungo possibile. Pensate ai parallelepipedi che cadono come a delle piccole unità di energie emotive: adesso pensate ad ogni parallelepipedo caduto in una posizione sbagliata come ad un piccolo infarto neuronale, un filamento di nevrosi, uno sclerotizzarsi del tessuto emotivo che intasa il libero fluire delle energie. Pensate alla fatica per uscire da una combinazione sfortunata di pezzi sputati fuori dal generatore random. Pensate a come ogni nuova mossa sbagliata porti sempre più rapidamente al collasso del sistema ed alla fine della partita. Pensate a come una somma di mosse sbagliate disegni rapidamente un panorama di ansia, paura, soffocamento e perdita di lucidità. Pensate al senso di sconfitta che accompagna la fine anche della migliore partita a Tetris: la sensazione di “però potevo fare meglio”.
«Papà?» «Sì piccolina.» «Quel signore nel cd che tu ascolti sempre ha mal di pancia?» «In un certo senso ha un peso sullo stomaco, piccolina, è vero. Si chiama James Murphy, e abita a New York. Ehi, ho una foto di lui qui sul computer, vuoi vederla? Guarda che pancia grande che ha» «W-o-w! Gli deve fare malissimo, la pancia!»
Invece niente. Niente luna di miele, niente mensole da montare, niente coprivestito verde di carta e mascherina mentre ti tengo la mano e tu che conti fino a tre e spingi, niente consulente matrimoniale per il settimo anno. Per un attimo - lì dentro al cimitero, cercando di non incrociare gli sguardi delle anziane signore che già al mattino presto si affacendavano attorno al rubinetto dell’acqua con i loro vasi, sperando che a nessuna di loro venisse in mente di rivolgermi la parola deducendo la mia identità sulla base della tomba di fronte alla quale ero fermo - per un attimo mi è stato chiaro che nella mia vita Ho Perso Più Di Quanto Potrò Mai Avere Indietro. Come la canzone dei Primal Scream, I’m Losing More Than I’ll Ever Have. E un istante dopo mi è venuta in mente questa cosa: cioè che I’m Losing More Than I’ll Ever Have è la canzone decostruendo la quale i Primal Scream (insieme al dj e produttore Andrew Weatherall) hanno creato Loaded, cambiando per sempre il corso della loro carriera e della musica pop in generale. Fino a un attimo prima c’era una malinconica canzone indie pop dal vago retrogusto gospel, e un attimo dopo invece c’è questa fantastica scheggia impazzita di psichedelia soul downtempo dove la voce di Peter Fonda (incrociata a quella di Bobby Gillespie) sembra parlarti di redenzione, di riscatto e di rinascita. L’elemento imponderabile che fa saltare per aria la configurazione del Tetris. A quel punto mi è stato chiaro che il senso della vita è riuscire a decostruire la propria I’m Losing More Than I’ll Ever Have per trovare la corrispondente Loaded. E non è affatto facile, no.
Non è affatto facile, sai? Sciogliere il grumo di petrolio che sembra imprigionare ogni Loaded di questo mondo prima che venga alla luce. No, non è affatto facile. |
Quando la letteratura irrompe nella vita quotidiana (oppure no) Ieri mattina ho comprato un paio di bermuda in uno di quei bottegoni marziani che stanno dalle parti del Duomo. Ma questo di per sé non è interessante. È interessante invece che il pomeriggio, dopo averli indossati e dopo essere sceso in strada, mi sono accorto che in entrambe le tasche laterali c'erano dei sassetti. Quei sassetti ruvidi e porosi che si trovano sulla riva del mare, avete presente? Ce n'erano pure parecchi, di sassetti. Ovviamente la mattina, provando i bermuda al bottegone, non me n'ero minimamamente accorto. Adesso il dubbio mi tormenta: • una delle commesse del bottegone appartiene ad una setta che tiene viva la memoria di Virginia Woolf attraverso criptiche azioni sul territorio? • qualcuno nelle passate settimane ha comprato questi stessi bermuda, ci ha fatto un weekend al mare e poi li ha riportati e cambiati con qualcosa d’altro? |
a Come il sudoku nel 2005, essere linkati da Syria è il grande giuoco dell’estate 2006 - e questo blogghetto modestamente lo è. Dirò di più: essere linkati da Syria è il nuovo Kitsuné Maison: se non sei sulla copertina della compilation della popolare etichetta parigina e non ti linka nemmeno Syria, ahi ahi, forse è il caso che cominci a interrogarti sul tuo contare qualcosa in termini di cultura pop... ;-) (grazie a She per la segnalazione) |
a Oh quant’è vero, quant’è dolorosamente vero che non c’è niente che sia per sempre. Volevo scriverlo in lungo ed in largo - ieri - in un post profondo e doloroso, un post che partendo da uno stronzo di dj-set arrivasse a cogliere delle verità personali e magari pure universali. Poi la saudade ha prevalso, l'ispirazione è venuta meno, e quindi vi beccate la versione abridged.
La sostanza non cambia: sono reduce dal weekend di field-clubbing più malinconico della mia vita (laddove: dicesi field-clubbing atto del clubbing performato in luogo ampio ed aperto, ad es. un festival open air). Ho assistito alla fine di una causa nella quale ho profondamente creduto anche quando crederci non era nè bello, nè cool, nè eticamente difendibile. Ho assistito alla trasformazione di Fatboy Slim nei Dire Straits: il Mark Knopfler della rave generation. Ho assistito - in tempo reale, davanti ai miei occhi - alla sua museificazione. Perchè: come altrimenti vogliamo chiamarlo, se non “reperto archeologico”, un set inutilmente autocelebrativo, tenuto in piedi dagli stessi tic linguistici e trucchetti vecchi di sette otto anni («fatboy slim is fucking in heaven...»)? Da, in buona parte, gli stessi pezzi suonati due anni fa a Imola (e cinque anni fa al Maffia)?
E anche se i pezzi non erano esattamente gli stessi non importa, era l’attitudine ad essere spaventosamente “stessa”, spaventosamente polverosa, meccanica, pavloviana. Era la sensazione di essere di fronte non ad un dj-set, ma ad un format (stadium-arcadium-disko?!?) basato al 100% sui massimi comuni denominatori, sulla paraculaggine, sul mestiere, ed allo 0% su istinto e improvvisazione. Una noia, una noia mortale. E quindi, addio Fatboy: è stato veramente bello finchè è durato. Il tuo set al The End di Londra nel luglio 1998 rimane uno dei ricordi più belli ever (quell’apertura con Satisfaction Skank, che ancora era una sorpresa, di cui i giornali ancora non avevano parlato). Il problema è che tu sei rimasto lì, ’fuckin-in-’fuckin-in-’fuckin in heaven, io invece no. Cioè, credo di no, ma in realtà ne sono abbastanza sicuro. Dev’essere per questo che, lasciando il pratone dopo il tuo ultimo inutile mash-up basato sui tuoi vecchi successi, avvertivo sì una fitta di malinconia all’altezza del cuore, ma anche uno strano senso di serenità. Addio, veramente. |
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